In Cisgiordania occupata, i coloni israeliani, protetti dall’esercito, raddoppiano di violenza
Le Monde, 27 giugno 2025
di Isabelle Mandraud (Cisgordania, inviata speciale)
Mentre tutti gli sguardi erano concentrati sul conflitto tra lo Stato ebraico e la Repubblica islamica, gli estremisti ebrei hanno moltiplicato gli attacchi contro i villaggi palestinesi. Mercoledì, a Kafr Malik, l’esercito israeliano ha ucciso tre civili dopo “getti di sassi”.
Sul suo letto d’ospedale, Amir, 15 anni, abbozza un pallido sorriso. La pallottola ricevuta nella schiena è uscita dalla spalla destra, ferendogli superficialmente la tempia nell’uscita. L’adolescente, i cui genitori hanno preferito non rivelare il cognome, è stato fortunato. Sotto le finestre della sua camera da letto sono usciti dalle ambulanze tre corpi senza vita. Murshed Hamayel, 35 anni, Mohamad Al-Naji, 21 anni, e Lotfi Baerat, 18 anni, sono stati uccisi alcune ore prima, mercoledì 25 giugno, in occasione di un raid di inaudita violenza condotto da coloni israeliani contro il villaggio di Kafr Malik, situato a 17 chilometri a nord est di Ramallah nel centro della Cisgiordania occupata. Arrivato sul posto l’esercito ha sparato.
Altri otto feriti palestinesi sono stati condotti insieme ad Amir nello stesso ospedale. Davanti all’entrata del pronto soccorso degli uomini crollano piangenti. Altri salgono nelle ambulanze per accarezzare il viso di un defunto. Le salme sono già avvolte nella bandiera palestinese. «I coloni si connettono via WhatsApp prima di attaccare, sono dei mostri. Per causa loro, due giorni prima, un mio amico è morto”, balbetta Amir, 15 anni in stato di choc.
È stato proprio quel mercoledì, giorno del funerale di Moataz Hamayel (un nome diffuso nel villaggio), 13 anni, ucciso anch’esso da uno sparo israeliano, il 23 giugno, che gli assalitori ebrei, numerosissimi – più di un centinaio secondo i testimoni -, sono ricomparsi seminando il terrore. “Sono arrivati verso le 19, le 19 30, hanno iniziato a bruciare delle auto e ad attaccare le nostre case, abbiamo provato a difenderci con sassi e le mani, che cosa potevamo fare d’altro?”, dice con un sospiro Hamdi, 27 anni, sdraiato nella stessa camera con Amir, con la gamba sinistra ferita da uno sparo.
«Nessuna differenza oramai tra un colono e un soldato»
A Kafr Malik, mentre vengono organizzati i funerali delle tre vittime, previste per l’indomani, giovedì, come vuole la tradizione, le tracce dell’attacco sono ben visibili. All’estremità del villaggio appollaiato su una collina, davanti al cancello di una bella dimora, la carcassa di un SUV sta ancora fumando. Vicino, buttati a terra una tenda e un materasso finiscono di consumarsi. L’odore acre stringe la gola. In una delle stanze del pianterreno, una larga macchia nera macula un muro. Una culla è posta in un angolo, intatta. “Mia moglie stava allattando la nostra ultima bimba di 20 giorni; io ero ancora ai funerali, abbiamo corso a perdifiato, spiega Bilal Hamayel, 43 anni. Ma i soldati erano dietro ai coloni, e hanno iniziato a sparare.” A qualche centinaio di metri al di sotto del suo domicilio, un veicolo blindato è tuttora lì.
Col viso rigato dalle lacrime, alcune donne si sono radunate un po’più in là, nella casa di Murshed Hamayel. “È morto, lì, ai piedi di quella colonna, spiega, con la gola stretta, Shireen Saïd, una cugina, designando la soglia della casa. Voleva chiudere la porta.” Fino al secondo piano, i vetri rotti delle finestre sono sparpagliati in terra.” I coloni tiravano pietre e gridavano in arabo “Vendetta! Vendetta!”, io non so perché”, continua la giovane donna. La stessa parola è stata taggata, in ebraico, sul muro di cinta della casa di Bilal, col nome di un colono di 17anni, Nachman, ucciso due anni prima a nord di Ramallah.
A metà giornata, sotto un sole impietoso, l’emozione trabocca. Le bandiere della Palestina e del Fatah, il partito principale della Cisgiordania, sventolano ovunque nelle strade, presto invase da decine di uomini che corrono dietro alle salme dei tre “martiri”, portati su lettighe al di sopra della folla. “I coloni sono adesso al di sopra delle leggi (…) non vi è più differenza tra un colono e un soldato. Ecco quanto è diventato il governo israeliano, un governo dell’annessione e delle esecuzioni”, afferma con forza Abbas Zaki, membro del Comitato Centrale del Fatah.
Interpellato da Le Monde sul dramma di Kafr Malik, l’esercito israeliano dice di aver voluto interporsi tra gli assalitori ebrei e gli abitanti, ma riconosce di aver fatto uso delle armi da fuoco, dopo esser stato preso di mira, afferma, da “getti di sassi”. Ora i termini stessi che usa sottolineano la differenza tra il modo con cui trattano i coloni e i Palestinesi: i primi sono designati come “civili israeliani”, i secondi come “terroristi”. L’esercito non si è mosso nemmeno, mercoledì la stessa sera quando a Kafr Malik, a pochi chilometri appena, dei coloni hanno attaccato un modesto mucchio di case all’uscita della località cristiana di Taybeh. Delle macchine sono state incendiate. Della benzina è stata versata sulla finestra di una camera da letto in cui stavano una madre con due bambine piccole. “Ci avevano attaccati, un anno e mezzo fa, ma è la prima volta che sono così violenti”, si preoccupa Souleimane Kaabnah.
Sprovvisti di rifugi o di sistema di allarme
La situazione già esplosiva in Cisgiordania, si sta ancora degradando. Mentre il mondo intero aveva gli occhi rivolti alla guerra tra Israele e l’Iran, gli estremisti ebraici sembrano avere approfittato di questo periodo per moltiplicare le esazioni. Tra il 17 e il 23 giugno, l’Ufficio del coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite (OCHA) ha censito 23 attacchi di coloni sul territorio i quali hanno fatto delle vittime e provocato danni materiali “o entrambi”. Tra il 13 giugno, giorno in cui iniziò l’offensiva dello Stato ebraico contro la Repubblica islamica, e il 23 giugno data del cessate il fuoco, l’organismo dell’ONU rileva anche “almeno 32 incidenti nel corso dei quali dei soldati israeliani hanno temporaneamente preso il controlli di 240 case palestinesi abitate o disabitate, espulso o detenuto coattamente i residenti e utilizzato le loro case come avamposti militari e centri di interrogatori”.
«Non è forse ancora la morte della soluzione a due Stati [progetto di regolamento del conflitto Israele-Palestina] ma è la strada maestra per esserlo, non vediamo più via di uscita”, constata Husam Shakhshir, il sindaco di Naplouse nel suo ufficio. “Qui, prosegue, gli Israeliani non hanno nemmeno bisogno di fare la guerra, controllano già tutto, fanno quello che vogliono, hanno libero accesso a tutto”.
Sprovvisti di rifugi o di sistemi di allarme, gli abitanti di quella grande città del nord della Cisgiordania hanno quindi osservato dall’alto delle loro case, i missili e i droni iraniani che passavano sopra le loro teste prima di venire intercettati dalla diesa antiaerea con un misto di amarezza e di soddisfazione. Alcuni hanno applaudito. Dei pezzi sono caduti sul territorio senza fare vittime.
L’inesorabile estensione delle colonie
Il conflitto israelo-iraniano si è soprattutto tradotto da un nuovo giro di vite, quando la città storica si è ritrovata letteralmente confinata. ”Non entrava più niente, non usciva più niente” testimonia Ayman Shakaa, un notabile della città vecchia che gestisce un centro d’azione sociale. Nablus, già circondata da sette checkpoint – cui si aggiungono 130 posti di controllo, barriere, strade bloccate a livello del governatorato- è affondata ancora maggiormente nella paralisi economica.
Rapidamente è venuta a mancare la benzina. Le stazioni di servizio non aprono che alcune ore al giorno e limitano la distribuzione di carburante, provocando lunghe file di attesa per gli automobilisti. Gli stipendi dei funzionari, che dipendono dalla restituzione delle tasse da parte dello Stato ebraico, si sono ridotti al lumicino: del 75% un mese fa, di 35% ora. Le incursioni brutali dell’esercito israeliano e della polizia israeliana nella città vecchia e nel campo di Balata vicinissimo, il più grande della Cisgiordania – 40 000 rifugiati in un chilometro quadro – sono diventate ancora più frequenti. Ma ciò che maggiormente preoccupa il sindaco, che spiega davanti a sé una carta, è l’inesorabile estensione delle colonie. “Voi vedete, siamo sempre più isolati, si rammarica. E tutt’intorno, i villaggi sono anch’essi accerchiati.”
A metà strada tra Nablus e Ramallah, il piccolo comune di Sinjil, che costeggia la strada 60, ha visto cambiare la sua situazione fin da aprile. Una cancellata metallica di 4 chilometri di lunghezza e di 4 metri di altezza è stata posta lungo l’unico punto di passaggio ancora aperto – una barriera metallica gialla – sulle quattro esistenti. Dalla sua casa posta in alto, Adel Fuqahaa ha una vista imprendibile sulla cancellata: “Siamo in prigione, ma almeno questo ci protegge dai coloni”, dice, palesando liberamente la paura crescente che essi gli ispirano.
Isabelle Mandraud
Il testo è stato tradotto da Hélène Colombani Giaufret
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