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10 Luglio 2023 – 20:58

Africa, 10 luglio 2023
di Claudia Volonterio
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Luci e ombre dell’industria di abbigliamento di “seconda mano” in Africa

a cura di in data 1 Luglio 2023 – 21:39Nessun commento

 

Africa, 1 luglio 2023

di Moges Andreoli – Centro studi AMIStaDeS

L’industria dell’abbigliamento di seconda mano – con l’importazione e la rivendita di abiti usati provenienti dai Paesi industrializzati del nord del mondo – crea migliaia di posti di lavoro, ma presenta anche risvolti problematici: dall’impatto sulla produzione tessile locale agli enormi problemi di inquinamento legati allo smaltimento dei prodotti invenduti.

L’industria dell’abbigliamento di seconda mano, nota anche come commercio “mitumba”, è una fonte significativa di abbigliamento in molti Paesi africani. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), il commercio di abiti usati è un’industria multimiliardaria che fornisce posti di lavoro e abbigliamento a prezzi accessibili a milioni di persone in Africa. Secondo le stime, nel 2019, il valore di tale commercio nel continente è stato pari a circa 1,2 miliardi di dollari, con la maggior parte degli indumenti provenienti da Europa e Nord America. L’industria è particolarmente importante nei Paesi in cui manca una produzione interna di abbigliamento e in cui il costo dei vestiti nuovi è troppo alto per molte persone.
L’impatto dell’industria dell’abbigliamento di seconda mano in Africa è evidente in diversi Paesi. In Kenya è per molti una fonte significativa di occupazione e di reddito. Secondo l’Ufficio nazionale di statistica del Kenya, nel 2019 il Paese ha importato oltre 260 milioni di dollari di abiti usati. Allo stesso modo, in Ghana si stima che il settore dia lavoro a oltre 30.000 persone, mentre nella popolosa Nigeria l’industria dell’abbigliamento di seconda mano ha un valore di circa 2 miliardi di dollari.

L’intreccio con il settore informale e i danni strutturali
Il settore informale e l’industria dei tessuti di seconda mano in Africa hanno una relazione complessa e intrecciata. Con settore informale si identificano tutte le attività economiche svolte da lavoratori e unità produttive che – in base alla legge o per prassi – non sono coperte, o lo sono in maniera insufficiente, da disposizioni formali. Il commercio non regolato contribuisce in modo significativo alle economie dei Paesi africani e il mercato degli abiti di seconda mano rappresenta un’opzione accessibile in quanto non richiede istruzione o una formazione specifica. Infatti, piccoli commercianti nel continente si garantiscono da vivere attraverso la vendita a basso costo di vestiti di seconda mano. Tuttavia, l’industria dei tessuti di seconda mano ha le sue radici nel commercio globale di abiti usati.
I Paesi occidentali donano gli abiti usati ai Paesi africani o li vendono a intermediari. Questi ultimi selezionano, puliscono e distribuiscono gli abiti ai piccoli commercianti dei mercati africani che li rivendono. Tale meccanismo ha un impatto ambivalente sull’economia africana. Da un lato, fornisce abbigliamento a prezzi accessibili a milioni di africani, soprattutto a quelli che non possono permettersi abiti nuovi. D’altro canto, può anche rappresentare un danno per le industrie tessili locali, che faticano a competere con l’abbigliamento importato a basso costo contribuendo alla potenziale chiusura di fabbriche, la perdita di posti di lavoro e la riduzione delle entrate statali. Ulteriormente, il mercato degli abiti di seconda mano prospetta una seria minaccia per il cotone, un importante bene di esportazione per molti paesi africani. L’afflusso di abiti usati riduce molto spesso la domanda di cotone prodotto localmente con conseguente calo del reddito derivante dalle esportazioni e una riduzione dei guadagni in valuta estera, con un impatto negativo sull’economia.
In aggiunta ai rischi di natura economica, il mercato di indumenti usati rappresenta un onere per quanto riguarda l’impatto ambientale: la mancanza di appropriate infrastrutture e metodi di smaltimento non inquinanti favorisce la presenza di discariche e inceneritori che oltre a provocare gravi danni all’ambiente contribuiscono ad alimentare i rischi legati alla salute delle comunità che vivono nei pressi di tali siti.

Quando il vestito sta stretto
Alcuni Paesi africani si sono preoccupati dell’impatto dell’industria dell’abbigliamento usato sulle loro industrie tessili ed economie locali. Ad esempio, nel 2016, il Ruanda ha annunciato l’intenzione di eliminare gradualmente l’importazione di abiti di seconda mano, al fine di incentivare la produzione locale e creare posti di lavoro. Tuttavia, questa mossa ha incontrato l’opposizione degli Stati Uniti, che hanno sostenuto che avrebbe danneggiato la propria industria tessile e violato gli accordi commerciali internazionali. Anche altri Paesi africani, come l’Uganda e il Kenya, hanno espresso preoccupazione per l’impatto delle importazioni di abiti di seconda mano sulle loro economie e hanno chiesto misure per proteggere le loro industrie tessili locali. Nel complesso, il dibattito sull’industria dei capi usati in Africa è complesso e coinvolge considerazioni sul commercio, lo sviluppo economico e la sostenibilità ambientale. Mentre alcuni Paesi possono scegliere di limitare o eliminare gradualmente le importazioni di abbigliamento di seconda mano, altri possono cercare di trovare un modo per bilanciare gli interessi contrastanti delle industrie tessili locali, dei consumatori e del commercio globale.

 

Inquinamento tessile
Un reportage uscito sul numero 5/2022 della Rivista Africa aveva fatto emergere il business dei cosiddetti “vestiti dei bianchi morti”: un mercato che crea decine di migliaia di posti di lavoro. Ma produce anche enormi problemi di inquinamento.
Sul blog di Fashion Revolution, un movimento di attivisti globale che si occupa di sostenibilità nel mondo della moda, la direttrice di Or Foundation aveva già raccontato nel 2019 il business dei vestiti di seconda mano, chiamati in Ghana “Obroni W’awu”, ovvero, in lingua akan, “vestiti dell’uomo bianco morto”. Il commercio prese piede nel paese negli anni ’60, quando si iniziò ad importare vestiti a basso costo considerati di alta qualità e ancora in buono stato (da qui l’idea che fossero di stranieri “deceduti”) e si propagò di pari passo con la moda di indossare abiti all’occidentale all’avvento dell’indipendenza (1975). Al mercato di Kantamanto, uno dei maggiori hub per di abiti usati al mondo, circa sette ettari nel centro di Accra, vi sono oggi circa 5.000 negozi di abiti usati che danno lavoro a 30.000 persone.
Tuttavia, il business dei “vestiti dei bianchi morti” ha recentemente perso di prestigio, perché l’abbigliamento che arriva è soprattutto di seconda mano e difficilmente riutilizzabile. Ogni settimana – ha spiegato Ricketts – arrivano circa 15 milioni di vestiti ammassati in balle che i rivenditori locali smistano in massa: solo il 60% è riutilizzabile, mentre il resto viene scaricato nel Golfo di Guinea, bruciato nelle baraccopoli producendo tossine tossiche o accumulato spropositatamente nelle discariche aperte e non pianificate, con ripercussioni per la flora e la fauna locale e risvolti negativi per l’ambiente, le infrastrutture e la salute degli abitanti del luogo.

Foto di apertura: Andrew Esiebo

Fonti

  • UNCTAD, Seizing the opportunities of a circular economy in textiles – https://unctad.org/news/seizing-opportunities-circular-economy-textiles
  • The Conversation, How used clothes became part of Africa’s creative economy – and fashion sense – https://theconversation.com/how-used-clothes-became-part-of-africas-creative-economy-and-fashion-sense-186575
  • AGOA.info African Growth and Opportunity Act, Global business of secondhand clothes thrive in Africa – https://agoa.info/news/article/15417-global-business-of-secondhand-clothes-thrive-in-africa.html
  • Karen Tranberg Hansen, The Secondhand Clothing Market in Africa and its Influence on Local Fashions – https://www.kci.or.jp/articles/files/K_D64_HANSEN_The_Secondhand_Clothing_ENG.pdf
  • Euromonitor International, Why Worn Clothes are Thriving in Africa – https://www.euromonitor.com/our-story

(Moges Andreoli)

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