Con l’Africa
Presentazione di Sao Tomé e Principe – Diario do centro do mundo al Castello D’Albertis
Con l’Africa
Presentazione di “Sao Tomé e Principe – Diario do centro do mundo” al Castello D’Albertis
di Giorgio Pagano
Genova Castello D’Albertis Museo delle Culture del Mondo
23 febbraio 2018
Perché ho scritto questo libro
Un libro è sempre una ricerca su se stessi. Ho scritto il libro perché sento il bisogno di riflettere sui miei ancoraggi ideali in un’epoca di smarrimento, mentre avanza un pauroso processo di svuotamento della politica democratica e della partecipazione. Nei momenti di crisi dobbiamo tornare ai principi, ai fondamenti.
Che fare? Viene in mente un bel verso di Pietro Ingrao: “Pensammo una torre, scavammo nella polvere”. Lui stesso lo commenta così: “La parola torre e la parola polvere fanno pensare a una distanza che in realtà non c’è: scavare nella polvere se si vuole essere torre”. E’ tempo di tornare nella polvere, tra le persone, tra i poveri e gli esclusi di oggi, per pensare una nuova torre.
Ho scritto due libri, “Eppur bisogna ardir” e questo sulla mia esperienza di cooperante a Sao Tomé e Principe, pressoché in contemporanea. Poi ho scritto “Sebben che siamo donne”. Due libri sulla Resistenza spezzina, un libro sull’Africa. C’è un nesso? Certamente. Sono tre libri che partono dalle persone, dalle donne e dagli uomini semplici. In “Eppur bisogna ardir” e in “Sebben che siamo donne” ho raccontato la Resistenza delle persone comuni. A lungo ho pensato di intitolare questo libro “Le isole delle donne e degli uomini semplici”. Ma poi ho riflettuto sul contributo del Viceministro Mario Giro, dal titolo “Un libro su Sao Tomè e Principe è più unico che raro”. Sao Tomè e Principe doveva avere, per la prima volta nella storia, l’onore di un titolo. E tuttavia, come “Eppur bisogna ardir” e “Sebben che siamo donne”, è un libro sulle persone, sulle persone che si battono per l’emancipazione di sé, per l’autodeterminazione della propria vita, per e con gli altri.
La “nuova torre” non può che nascere dalla capacità di autogoverno delle persone, dal coraggio morale, dalla concezione della vita come cammino non solo individuale ma anche e soprattutto con gli altri, come immedesimarsi nella sofferenza degli altri. Sono i valori fondamentali dell’umanesimo, i valori della Resistenza italiana ed europea che ho ritrovato in Africa, i valori che ci guidano oggi nella battaglia contro l’individualismo e il dio denaro, per la solidarietà e la vita comunitaria, in Occidente come in Africa. Una battaglia che è fondamentale perché l’Africa sappia respingere il neocolonialismo e costruire una sua autonoma strada allo sviluppo. Che non copi il nostro sviluppo, che consuma e distrugge l’ambiente. C’è una parola nella lingua zulù che Nelson Mandela ha reso famosa nel mondo: “ubuntu”. E’ un termine difficile da tradurre, ma l’espressione che gli si avvicina di più è “l’insieme dell’umanità”, l’empatia, l’umanesimo. Il poeta e scrittore nigeriano Wole Soyinka spiega così l’”ubuntu”: “la solidarietà è obbligatoria, siamo tutti responsabili, altrimenti perdiamo la nostra umanità”.
Il centro del mondo
Nel titolo Sao Tomé e Principe è definito “centro do mundo”. Lo è dal punto di vista geografico (l’Ilheu das Rolas, un isolotto dell’arcipelago, è esattamente sulla linea dell’Equatore), ma lo è anche e soprattutto dal punto di vista politico e culturale. Perché, come dice papa Francesco, il mondo si capisce soprattutto dalle periferie. Ci accomunano tutti i grandi problemi: come crescere senza distruggere l’ambiente e l’identità dei luoghi, come contrastare il cambiamento climatico, come fare comunità e rendere la società più coesa. E ci accomuna la rotta per affrontare questi problemi: la rotta che punta sulle persone e sui territori.
Le persone
Nel libro spiego che la mia concezione della politica mi ha sempre spinto a partire dalle persone. Ho sempre cercato di farlo, prima da uomo di partito, poi da Sindaco. In miei testi precedenti, dedicati alla sinistra, sono arrivato alla conclusione che sia la sconfitta degli anni Venti sia quella degli anni Settanta sono state determinate dalla concezione prevalente nel movimento operaio, sia comunista che socialdemocratico, con al centro l’assalto allo Stato, la conquista del potere politico, e non la trasformazione della società attraverso un processo dal basso, anche culturale e soggettivo, che aiuta i lavoratori e le persone a governarsi da sé. C’è una frase che cito spesso, è di Bruno Trentin che, in “Il coraggio dell’utopia”, dice: “Credo di essere arrivato alla convinzione che l’utopia della trasformazione della vita quotidiana debba diventare il modo di fare politica”. I cambiamenti devono avvenire qui e ora, e diventano reali e duraturi solo se procedono dal basso, dalle persone. La grande politica è la capacità di rendere le persone autonome, capaci di autogovernarsi da sé.
E’ con questa concezione in testa che ho lavorato, a Sao Tomé e Principe, al Piano di Lembà: costruire relazioni con i saotomensi basate sul rispetto e sulla reciprocità, presupposto necessario per costruire un Piano che fosse “di Lembà” e non “per Lembà”, quindi una “costruzione sociale” elaborata con il contributo decisivo delle persone, in grado di supportare la capacità dei saotomensi di autogovernarsi. Credo, come testimonia il diario, di esserci, almeno in parte, riuscito. Soprattutto perché ho trovato rispondenza nei saotomensi.
Il mio rapporto con i saotomensi non è stato semplice. All’inizio è stato traumatico: l’Africa è una realtà molto diversa, che ti sfida ad accettare le sue contraddizioni, i suoi tormenti, le sue passioni. La prima volta la reazione fu, dopo un po’, quella di fuggire. Ma poi sentii il bisogno di tornare: l’Africa ti penetra dentro, e nasce un rapporto indissolubile. Con i bambini, innanzitutto. Sono stato in villaggi dove i bambini non avevano mai visto l’’homem branco’: un essere curioso, da scoprire con il loro sguardo intenso e penetrante, con cui giocare, con cui scambiare la realtà interiore. Un rapporto indissolubile, sia pure meno immediato e da costruire nel tempo, è nato anche con gli adulti: in loro c’è una intensa spiritualità, una grande solidarietà comunitaria, una ‘forza vitale’. E’ l’umanesimo africano. Sono andato con tanta fiducia e ne ho trovato altrettanta: è così che abbiamo potuto costruire un piano partecipato, frutto del lavoro di centinaia di persone. Mi è servita la mia esperienza di Sindaco: puoi governare solo se c’è la fiducia, se c’è la partecipazione, se c’è il sentimento di un’impresa comune.
Non offro un quadro edulcorato. La situazione è certamente complessa: ci sono, nei saotomensi, la povertà spirituale e l’individualismo frutto dei nostri tempi, c’è il maschilismo… E’ venuta meno la narrazione popolare marxista della fase postcoloniale (Sao Tomé e Principe fu fino al 1992 sotto l’influenza sovietica), contribuendo a creare un “buco di coscienza soggettiva”. E tuttavia ci sono anche, come dicevo, la spiritualità e la solidarietà comunitaria. Probabilmente, per spiegarle, bisogna risalire alle origini della civiltà africana: “Il bene dell’individuo era funzione del bene della comunità. Non il contrario. L’ordine morale era solidamente collettivo” (Basil Davidson, “La civiltà africana. Una storia culturale”). Poi fu soprattutto l’arrivo rovinoso del colonialismo europeo a impedire che tutto quello che c’era di valido nelle antiche strutture, il vigore morale, l’umanesimo, l’accento posto sull’esistenza sociale dell’uomo, potesse sopravvivere in nuove forme. Eppure questo retaggio di dignità, di ottimismo, di fiducia, di “forza vitale” in qualche modo permane ancora, nutre l’oggi e nutrirà il futuro dell’Africa.
Questo retaggio è emerso man mano che si sono sviluppati i processi di decolonizzazione. Essi hanno portato alla luce una saggezza millenaria, formulata oralmente e comunitariamente. E’ di grande interesse lo studio delle filosofie africane. La visione ricorrente è di tipo olistico: la realtà è una totalità che tende a una sua armonia. Ne deriva una concezione etica incentrata sulla comunità e sul senso dell’appartenenza responsabile alla vita intera in quanto totalità organica. La sensibilità per l’esistenza comune si fonde con quella che valorizza il legame con la natura e con la terra. L’altra caratteristica è quella della capacità di condivisione, del legame di dono con gli altri e dell’azione per la liberazione, che accosta la più recente filosofia africana alla teologia e alla filosofia della liberazione in America Latina.
Per spiegare la spiritualità e la solidarietà comunitaria occorre riferirsi anche alla religione, indubbiamente. Che a Sao Tomè e Principe è quella cattolica. Ma intrisa di elementi culturali locali. Del resto fu il Concilio Vaticano II a parlare di “intima trasformazione degli autentici valori culturali mediante l’integrazione nel cristianesimo” e di “radicamento del cristianesimo nella varie culture umane”.
I territori
La mia “rotta” è sempre stata quella delle persone e dei territori, dei sistemi locali, che costituiscono il secondo elemento portante della “rotta”. La realizzazione delle persone è un processo che si sviluppa all’interno dei sistemi locali, dei territori dove le persone e gli attori collettivi vivono e interagiscono; a sua volta lo sviluppo sostenibile dei territori deve essere cercato dagli attori dei territori stessi, è cioè reso possibile dalle persone. C’è un legame strettissimo tra persone e territori. Una simile visione oggi, a livello internazionale, è ritenuta da molti fondamentale per l’attuazione dell’ “Agenda dello Sviluppo Post-2015”; ma dieci anni fa era ancora patrimonio di un gruppo ristretto di “pionieri”. Mi riferisco agli amici delle associazioni con cui ho collaborato in questi anni: “Euro African Partnership”, “Funzionari senza Frontiere” e “Januaforum”.
E’ anche con questo secondo elemento portante della “rotta” che ho operato per il Piano di Lembà. E’ una nuova visione della cooperazione, che non si riduce agli aiuti ma tende a costruire e a potenziare le strutture istituzionali, economiche e civili decentrate, che sono decisive perché le persone possano realizzarsi. Gli aiuti stanno in piedi solo se si creano istituzioni locali riconosciute, apprezzate e in grado di governare il territorio, che supportino la capacità di autogoverno delle persone. Come diceva un grande leader africano, Thomas Sankarà: “L’unico aiuto utile è quello che uccide l’aiuto”.
Persone e territori, sistemi locali, enti locali. A Lembà l’ente locale, la Camara Distrital, è stato protagonista dell’elaborazione del Piano, e ora lo è della fase attuativa. E in questo percorso ha iniziato a rafforzarsi, partendo da una situazione di grande debolezza. Il livello di governo decentrato ha un suo radicamento nel Paese e nella cultura dei suoi cittadini. Anche in questo caso si può parlare di un retaggio del passato. All’origine, in Africa, c’è la comunità del villaggio: “La comunità politica fondata sulle istituzioni di parentela, a cerchi sempre più larghi, ha preceduto di norma la nascita dello Stato come ordinamento eminentemente giuridico. E’ il gruppo e non l’individuo che definisce la società” (Gian Paolo Calchi Novati e Pierluigi Valsecchi, “Africa: la storia ritrovata”).
Il partenariato tra comunità e il rapporto tra cooperazione e internazionalizzazione delle imprese
Gli aiuti, inoltre, stanno in piedi se si produce una rete di relazioni e di scambi che faccia crescere il territorio “nostro” e “loro”. E’ quello che abbiamo definito “partenariato tra comunità”, perché punta a far collaborare tra loro non solo i Comuni italiani e quelli dei Paesi in via di sviluppo, ma anche le rispettive associazioni della società civile, le fondazioni bancarie, le imprese…
Vengo a un tema controverso: il ruolo, nel partenariato, delle imprese straniere, il rapporto tra cooperazione internazionale e internazionalizzazione delle imprese. Faccio un esempio: a Sao Tomé e Principe è indispensabile modernizzare il settore della pesca. Come ho spiegato, io penso che l’innovazione, per dare frutti, debba essere un fatto sociale, condiviso, partecipato. Quindi bisogna coinvolgere i pescatori artigianali e le “palaiés” (le venditrici di pesce), altrimenti rischiamo di arricchire solo le imprese straniere “predatrici”. E però c’è bisogno anche di imprese straniere “non predatrici”, socialmente e ambientalmente responsabili. A Lembà c’è un impianto per la pesca industriale costruito dalla cooperazione internazionale “dall’alto”, senza coinvolgere nessuno: giace abbandonato, perché nessuno sa adoperarlo. Noi abbiamo proposto la costituzione di una società mista per la pesca, costituita dallo Stato, che conferirebbe la struttura e la concessione della licenza di pesca, e da un’impresa straniera, che conferirebbe la flotta e l’impegno di gestione della struttura. Questa società dovrebbe collaborare con le piccole imprese locali esistenti, assumere una parte dei lavoratori artigianali e/o acquistare una parte del loro pescato, collaborare con le associazioni delle “palaiés” per la vendita, per esempio nelle zone rurali del Paese, dove oggi il pesce non arriva. L’innovazione va portata dal di fuori ma al tempo stesso va fatta nascere dall’interno, coinvolgendo le persone, supportandole nei cambiamenti, suscitando la loro creatività. Perché i pescatori non chiedano solo assistenza, ma entrino da protagonisti in questo progetto.
Ecco, questo è un esempio di buona cooperazione, non calata dall’alto e capace di unire dono e investimento per il nostro futuro.
Un autonomo modello di sviluppo
La parola “autonomia” è una parola chiave del libro. Alcuni cooperanti hanno poca fiducia nell’Africa e sono pieni di pregiudizi verso gli africani. Io sono partito senza pensare di essere “migliore” e di imporre le mie idee, sono andato in Africa non da cooperante di professione e forse proprio per questo ho costruito un rapporto di fiducia reciproca, tutto teso all’obbiettivo dell’“autonomia” degli africani. Gli africani come soggetto del progetto di cooperazione, non come oggetto. Ma la parola “autonomia” vale anche per il modello di sviluppo di Sao Tomé e Principe. Con i saotomensi “soggetti autonomi” abbiamo elaborato, insieme, un piano di sviluppo condiviso che cerca di far sì che nell’economia globale Sao Tomé e Principe diventi, da oggetto, soggetto, con un suo “autonomo” modello di sviluppo basato sull’agricoltura, sulla pesca e sull’ecoturismo, sul rispetto dell’identità del luogo. L’ecoturismo è, in particolare, la grande novità del piano. Il Governo nazionale aveva per il Distretto di Lembà un disegno radicalmente diverso: farlo diventare area industriale e portuale. Noi abbiamo proposto un piano di sviluppo alternativo, e alla fine abbiamo convinto il Governo nazionale ad approvarlo. Ma ci siamo riusciti proprio perché era il piano “dei” saotomensi, non “per” i saotomensi.
Europa Italia Africa
L’Africa è sempre più “nostra”. Le migrazioni, la globalizzazione e la crisi economica, il terrorismo jihadista: tutto spinge a superare i confini, a rendere permeabili le frontiere, a unire Europa e Africa. L’Europa non può più essere altra rispetto all’Africa, e viceversa: i destini sono interconnessi, il rapporto è e sarà sempre più stretto, tra grandi difficoltà e altrettanto grandi opportunità. Troppe sono le cause comuni che ci interpellano. L’Africa è il nostro grande Sud, l’Europa è il grande Nord dell’Africa. L’Africa non è un groviglio di problemi da cui stare lontani, è una grande occasione. E’ una terra giovane, con un’età media di vent’anni, ed è un grande laboratorio di idee. Quando partecipavo alle assemblee e ai “tavoli” di discussione a Lembà, mi domandavo: ma non c’è più entusiasmo, più dinamismo, più creatività qui, in questa terra così misera, che non nelle assemblee della “vecchia” Italia e della “vecchia” Europa? La verità è che l’Africa è un continente con risorse umane di cui abbiamo bisogno. Così come loro hanno bisogno di noi. Le migrazioni saranno sempre più “circolari”: loro continueranno a venire da noi, ma vorranno anche tornare nei loro Paesi; e noi andremo sempre più da loro, perché l’Africa è un continente bellissimo e ricco di cultura, perché è l’unico che ha terre agricole da coltivare (non da accaparrare con il “land grabbing”), perché ha bisogno della nostra intrapresa, nel campo delle energie rinnovabili come in quello delle infrastrutture…
Il libro ha quindici mesi di vita, questa è la ventiseiesima presentazione. Ho incontrato, anche grazie alla mostra, migliaia di persone. Credo che libro e mostra, nel loro piccolo, abbiano dato un contributo a fare avanzare queste idee, anche come antidoto alla paura. Le migrazioni provocano paura, ma anche tante domande su che accade in Africa. Il libro cerca di dare delle risposte, nel segno del dialogo, della consapevolezza di un destino comune.
Io ricordo -ero ragazzo- gli anni Settanta del secolo scorso. Era il periodo della decolonizzazione, in Italia c’era un robusto e diffuso sentimento verso l’Africa, di tutte le culture politiche. Era la fase dell’idea di Eurafrica di Leopold Senghor, politico e poeta senegalese. Una fase di estroversione dell’Europa e dell’Italia che è alle nostre spalle. Oggi siamo in una fase di introversione: siamo passati dall’apertura alla paura. In Africa l’Italia è l’Eni, le missioni e le Ong. Non c’è lo Stato, non c’è la società civile nel suo complesso. Il libro e la mostra si inseriscono in un tentativo di tornare all’estroversione, a quelle che Giorgio La Pira chiamava le “passioni unitive”, l’interesse per l’altro.
Da qui un’insistenza, che c’è nel libro, sul Mediterraneo come unità geopolitica, non solo come mito retorico. C’è davvero un’unità che viene da una storia lunga, da una mescolanza di culture, di lingue… Una storia di migrazioni nostre in quei Paesi, in Tunisia, in Egitto, prima ancora che da quei Paesi verso di noi. Il Mediterraneo è davvero un grande lago euroafricano, e quello che ci serve, e che purtroppo manca, è una grande politica euroafricana. Che ci sarà solo se l’Italia sarà protagonista, perché un’Europa retta da Germania e Francia non potrà mai essere mediterranea. E’ una grande opportunità per il nostro Paese.
Cooperazione e migrazioni
Oggi c’è una nuova attenzione all’Africa da parte dei governi, che è dovuta essenzialmente ai flussi migratori. La questione non è semplice. Certamente va garantita la libertà di migrare, soprattutto nel momento in cui i cambiamenti climatici, oltre che le emergenze politiche, sociali ed economiche, provocano flussi forzati. Ma certamente va tutelato anche il diritto di restare nella terra in cui si è nati, con politiche di prevenzione delle “migrazioni forzate”. Il fenomeno può essere governato solo con una visione lungimirante e con il senso alto di una politica intesa come incontro, solidarietà, stare insieme.
Una visione che all’opera di accoglienza e di integrazione di chi è costretto a fuggire accompagni l’opera per eliminare alla radice i fenomeni che sono alla base di questa fuga: le guerre, la fame, il cambiamento del clima. Il compito della cooperazione internazionale è questo. Dobbiamo evitare di concepire la cooperazione come l’ha concepita la Germania con il suo patto scellerato con la Turchia: io ti pago perché tu ti tenga i migranti, non importa come e dove. Dobbiamo evitare di dare soldi a classi dirigenti corrotte e che non rispettano i diritti umani, solo per misure di sicurezza e di polizia. Era la logica del nostro accordo con il dittatore libico Gheddafi, che in cambio di soldi teneva in carceri disumane i migranti. Più in generale era la logica dell’Europa con tutti gli Stati della sponda sud del Mediterraneo: sosteniamo i dittatori perché ci garantiscono stabilità (oltre che petrolio). Ma i dittatori sono inevitabilmente destinati a cadere, e i nodi a venire inevitabilmente al pettine. L’Europa, però, non ha capito la lezione. Purtroppo anche i recenti accordi tra Italia e Libia e tra Italia e Niger hanno un segno analogo. Il rischio è evidente: che la cooperazione internazionale si trasformi in un sostegno non ai popoli, per uno sviluppo sociale più equo, ma ai governi e al loro potere, in cambio di fermare le persone che scappano dai regimi. La cooperazione internazionale deve invece servire a costruire, in partenariato con gli Stati, gli enti locali e le organizzazioni della società civile dei Paesi poveri, la pace, la democrazia, lo sviluppo sostenibile, la giustizia sociale e ambientale.
In gioco non c’è solo il futuro dell’Africa, in gioco ci sono la coesione e i valori del progetto europeo. L’Europa (e l’Italia) ha una difficoltà a gestire il fenomeno migratorio perché non sa bene chi è e che cosa vuole. La questione migratoria non può essere affrontata dall’Europa e dall’Italia se non partendo dai principi di diritto internazionale su cui si basano le nostre democrazie. Abdicare a quei principi vuol dire rinunciare di fatto alla propria storia e mettere in discussione l’intero sistema di valori a cui si ispirano gli Stati di diritto. La rivendicazione dei diritti fondamentali di eguaglianza e di libertà, di aspirazione alla costruzione di una vita migliore, non possono riguardare solo alcune popolazioni, devono valere per tutto il popolo-mondo. L’orizzonte non può essere così angusto come quello italiano ed europeo: per bloccare i flussi non possiamo rinchiudere centinaia di migliaia di persone nei campi libici o costringere i migranti, come stiamo facendo in Niger, a viaggi più lunghi, pericolosi e costosi, nelle mani di trafficanti ancora più spietati. I morti nel Mediterraneo si vedono in tv e si contano. I morti nei campi libici e nel deserto subsahariano non si vedono e non si contano. Ma sono tanti, troppi morti.
C’è un’alternativa? Certamente. Ciò che serve è un’operazione umanitaria multinazionale sotto il controllo dell’Italia, una sorta di missione Mare Nostrum allargata e finanziata direttamente dalla Commissione europea. Lo dico con le parole pronunciate alla Spezia da Roberto Camerini, già Capo del Dipartimento Militare Marittimo Alto Tirreno, durante un incontro che l’Associazione Culturale Mediterraneo ha organizzato con gli studenti: “Mare Nostrum costava 10 milioni di euro al mese, ma se avessimo diviso la spesa con gli altri Paesi europei il costo sarebbe stato di 350.000 euro al mese… Dobbiamo fare cooperazione in Africa, i risultati si vedranno tra vent’anni… Nel frattempo dobbiamo salvare vite e accogliere, senza delegare il problema ai dittatori africani, come abbiamo fatto per anni con Gheddafi”.
Meglio di così non si potrebbe dire. Aggiungo tre cose.
La prima è che occorre la riforma della legislazione europea, a partire dalla sospensione del regolamento di Dublino che obbliga i migranti richiedenti asilo a fermarsi nello Stato di primo approdo, Italia, Spagna e Grecia: ma questo il ministro Minniti quasi non lo chiede.
La seconda riguarda i cosiddetti “migranti economici”: va superata la legge Bossi-Fini, che ha chiuso ogni sistema legale per arrivare in Italia con un normale permesso di soggiorno per motivi di lavoro. In base alla legge gli immigrati dovrebbero avere un contratto di lavoro già nel momento in cui partono dal loro Paese di origine, un elemento quasi fantascientifico considerando l’informalità del nostro mercato del lavoro e l’estrema difficoltà per il nostro sistema delle piccole e medie imprese (che di lavoratori immigrati hanno bisogno) di andare a fare reclutamento in Africa. Per non parlare di chi cerca le badanti. La Bossi-Fini ha offerto su un piatto d’argento ai contrabbandieri libici un nuovo mercato per i “viaggi” verso l’Europa: quello degli immigrati in cerca di lavoro. Il mercato per i contrabbandieri l’abbiamo creato noi con le nostre leggi.
La terza cosa è che l’accoglienza di tutti i migranti, richiedenti asilo, “economici” e anche “ambientali” o “climatici” (lo “State of the World 2015” del World Watch Institute stima che tra il 2008 e il 2013 le persone che hanno dovuto spostarsi in altre aree o Paesi, a causa dei disastri ambientali e climatici, siano state 140 milioni), va accompagnata alla capacità di integrazione. Che significa dare vita a piani formativi e per il lavoro che siano utili ai migranti per vivere oggi nel nostro Paese e per quando potranno rientrare nel loro Paesi. Piani formativi e per il lavoro che dovrebbero riguardare tutti i deboli e i poveri, rifugiati e italiani: altrimenti si scatenerà sempre più quella “guerra tra poveri” che alimenta il razzismo. L’obbiettivo, dice il sociologo Zygmunt Bauman, è “una fusione di orizzonti… una nuova solidarietà tra gli umani”. Né noi né i migranti ci possiamo salvare da soli. Quelli che dicono “prima gli italiani” non hanno capito che entrambi abbiamo bisogno delle stesse cose: casa, formazione, lavoro, salute… Tutte cose che i migranti cercano e che noi stiamo perdendo, e che possiamo forse salvare e recuperare per tutti: a patto di sconfiggere le politiche economiche all’insegna dell’austerity neoliberista.
L’esempio
L’ultima parte del libro è dedicata all’esempio. La politica della cooperazione, dell’incontro, del governo lungimirante del mondo ha bisogno di esempi, di persone credibili, sobrie, austere. Queste persone sono i grandi leader, come Nelson Mandela e Thomas Sankara, gli intellettuali, i religiosi. Ma anche e soprattutto le donne e gli uomini semplici. Nel mio “Pantheon” degli esempi ho messo al primo posto le donne africane, la spina dorsale che sorregge Sao Tomé e Principe e tutto il continente. In fondo se ci sono dati che, in Africa subsahariana, fanno sperare, sono proprio quelli che riguardano le donne: crescono le donne occupate in lavoro salariato non agricolo ma anche le donne che occupano cariche politiche. Riflettiamo anche sul fatto che l’emigrazione è un fenomeno in gran parte maschile. Questo significa che le donne che sono rimaste non stanno solo in casa, ma lavorano, si occupano della cosa pubblica… La cultura patriarcale è un forte elemento di compressione della società africana, anche degli uomini. Ogni passo verso il suo superamento è un passo per la vera crescita dell’Africa.
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