Umoja, il villaggio del Kenya dove le donne sono libere dalla violenza di genere
10 Luglio 2023 – 20:58

Africa, 10 luglio 2023
di Claudia Volonterio
C’è un luogo sicuro in Kenya dove tante donne si sono rifugiate negli anni per proteggersi da ogni forma di violenza di genere, tra cui stupro, mutilazioni genitali femminili, abusi …

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Storie di re, contadini, minatori e donne nel Marocco che cambia

a cura di in data 1 Settembre 2018 – 09:15Nessun commento
Marrakech, suq, donne al lavoro per produrre argan  (2018)  (foto Giorgio Pagano)

Marrakech, suq, donne al lavoro per produrre argan
(2018) (foto Giorgio Pagano)

Città della Spezia, Rubrica “Marrakech. Diario africano”, 26 agosto 2018 – Per me il Marocco è solamentela città di Marrakech, quella della sequenza di apertura del film “L’uomo che sapeva troppo” di Alfred Hitchcock, con l’inseguimento nel suq e nella piazza JemaaelFna, con le bancarelle ricolme di cibo, gli incantatori di serpenti e i cantastorie. Ma spero mi capiti di visitare ancora il Paese: da Rabat a Casablanca e a Fez, dalle distese e dalle dune sahariane alla costa atlantica, dove il deserto arriva fino al mare. E poi fino ai rilievi montuosi della catena del Rif e dell’Atlante, dove -a proposito di film- nel 2010 girarono lo straordinario “Uomini di Dio”, che racconta la storia vera della morte nel monastero di Tibhirine in Algeria di sette monaci trappisti, che vivevano in armonia con la popolazione musulmana, per mano di un gruppo terrorista.
E’ dalle montagne del Rif che, anche oggi,soffia il vento della rivolta.Nel 2011, allo scoppio delle Primavere arabe, anche il Marocco conobbe manifestazioni di vasta portata, per chiedere più libertà e più lavoro. Ad organizzarle fu il “Movimento 20 febbraio”. Il Re Mohammed VI, che era salito al trono nel 1999, promise riforme che calmarono per una fase la collera popolare. Varò la riforma della Costituzione, per garantire l’indipendenza della magistratura, la parità uomo-donna e l’obbligo del Re a dare l’incarico di governo al partito vincitore delle elezioni. Ma le riforme sono ancora insufficienti, i diritti civili e sociali sono carenti e le manifestazioni di protesta sono represse con l’uso della violenza. Camminando per Marrakech colpisce l’immagine del Re, che è ovunque. “E’ un innovatore”, dicono coloro con i quali parliamo. Ma in Marocco non è ancora possibile esprimersi liberamente.E le turbolenze sociali e politiche non mancano.

“SIAMO TUTTI IL RIF”
Nel Rif tutto è cominciato nell’ottobre 2016, dopo la terribile morte di un giovane venditore ambulante di pesce, MouhcineFikri, ucciso da un camion dei rifiuti, dove era entrato per recuperare il pesce che la polizia gli aveva confiscato e gettato via.
“Siamo tutti il Rif”: lo slogan, gridato da migliaia di persone, è risuonato poco più di un mese fa a Rabat e nelle principali città, compresa Marrakech.Le piazze si sono riempite dopo la notizia delle durissime pene comminate a 53 dirigenti del Movimento popolare del Rif, colpevoli di avere organizzato le proteste degli ultimi due anni. Il Rif ha alle spalle una storia di sollevazioni popolari e conseguenti repressioni, fin dalle lotte contro la colonizzazione francese e spagnola, e poi negli anni Ottanta. Il mare, la tradizionale forma di sussistenza delle famiglie berbere, è sempre più occupato dalle grandi compagnie europee, favorito dai piani governativi che puntano a un turismo faraonico, tutto grandi alberghi e campi da golf, non a misura d’uomo e del tutto slegato dalla popolazione locale. L’economia del Rif si sviluppa nelle foreste delle montagne, dove nelle pendici più basse all’agricoltura tradizionale si aggiungono le piantagioni di cannabis, lucrose per gli intermediari più che per i contadini (secondo le stime il 40% della produzione mondiale). Ecco perché ilRif è terra sia di grandi migrazioni che di grandi lotte sociali.

LA LOTTA DEI MINATORI DI JERADA
La mobilitazione si è diffusa in altre zone rurali e periferiche. Secondo “Human Rights Watch” è stata usata violenza contro i manifestanti a Jerada, città del nord non lontana dal confine algerino,l’altro epicentro della protesta in Marocco. A partire dagli anni ’30 Jeradaè stata un grande centro di estrazione del carbone e un incubatore del movimento operaio marocchino. Nel corso degli anni ’90, però, le società minerarie presenti nella città chiusero i battenti. Nel 1998 la società Charbonnagesdu Maroc (Cdm), che impiegava circa 9.000 lavoratori, annunciò la cessazione delle attività, che terminarono definitivamente nel 2001. Da allora, la popolazione di Jerada è passata da 60.000 abitanti a 43.000. La Cdm gestiva anche la distribuzione di acqua ed elettricità ai cittadini, e i costi delle bollette sono aumentati dopo la sua chiusura. A causa dell’assenza di fonti di reddito alternative, centinaia di lavoratori continuano a estrarre il carbone in condizioni di autoimpiego informale, precarie e rischiose. Per questo la silicosi colpisce ancora duramente gli abitanti della zona. Diversi lavoratori hanno dichiarato ai media che il commercio del carbone è gestito da notabili locali, spesso facenti parte dell’apparato statale, che si arricchiscono senza assumere nessuna responsabilità per le condizioni lavorative dei minatori.
Il 22 dicembre 2017 due fratelli di ventitré e trent’anni sono deceduti a causa dell’allagamento di un tunnel minerario clandestino. Si tratta dello stesso destino toccato nel corso degli anni a numerosi minatori di Jerada. La tragedia ha dato il via a un prolungato movimento di massa per l’impiego stabile e lo sviluppo locale. Il movimento, conosciuto anche come il “Hirak di Jerada”, si è progressivamente organizzato in comitati di quartiere e ha visto diversi scioperi generali locali. La protesta si è acuita con la morte di un altro minatore il 1° febbraio 2018. Lo Stato marocchino ha usato la tattica dilatoria di trattare prima e reprimere poi. A gennaio il Governo ha proposto un piano di sviluppo locale che prevedeva numerose concessioni. La popolazione è rimasta però mobilitata, sapendo che in genere gli accordi di questo tipo non vengono applicati in assenza di pressione dal basso. Già dopo la chiusura della Cdm lo Stato aveva concordato con i sindacati un programma di sviluppo locale che non è mai stato attuato.Il 10 marzo 2018 la polizia ha arrestato due leader del movimento, Amine Mkallech e MustaphaDainane (l’immagine del profilo Facebook di quest’ultimo, raffigurante Lenin, lascia pochi dubbi sul suo orientamento politico). Il“Hirak di Jerada” si è mobilitato per la liberazione dei due prigionieri con una manifestazione di migliaia di persone già l’11 marzo. Ma il 13 marzo il Ministero degli Interni ha vietato qualsiasi manifestazione. Il 14 marzo, quando la polizia ha tentato di disperdere un presidio di protesta, sono cominciati duri scontri, conclusisi con circa 200 feriti tra manifestanti e poliziotti e l’incendio di cinque veicoli della polizia. Sono state viste scene scioccanti di vetture della polizia che inseguivano a sangue freddo i cittadini per investirli, e di giovani che si lanciavano nei buchi delle miniere di carbone minacciando il suicidio.

IL BOICOTTAGGIO
Il Marocco è un Paese a due velocità, con le grandi città che crescono grazie ai progetti infrastrutturali e agli investimenti stranieri e le zone rurali poverissime. Ma la lotta contro la repressione unisce città e campagne. Da fine aprile in tutto il Marocco è partito un boicottaggio contro alcune aziende nazionali e straniere, accusate di mantenere artificialmente alti i prezzi, grazie a oligopoli radicati: dalla francese Danone, la multinazionale del settore agroalimentare, alla Oulmes, produttrice dell’acqua minerale Sidi Ali. Secondo l’”Economiste”, il primo quotidiano economico del Marocco, circa il 57% dei marocchini sta prendendo parte alla protesta, impossibile da reprimere e senza una leadership. Le aziende stanno pensando di tagliare posti di lavoro: il problema è la mancanza di un soggetto che rappresenti i lavoratori e che negozi e contratti. Ma la potenza del boicottaggio resta, perché coinvolge ampi settori popolari.

PERCHE’ L’EUROPA E’ SILENTE
I Paesi europei si guardano bene dal criticare le carenze dei diritti in Marocco. Non solo per gli interessi economici, ma anche per motivi legati alla sicurezza e alla lotta contro il terrorismo. Uno degli africani più potenti è AbdellatifHammouchi -capo della Direzione Generale per la sorveglianza del territorio e di quella per la sicurezza nazionale- che risponde direttamente a Mohammed VI. Hammouchi è stato sotto inchiesta peraccuse di tortura nei confronti di cittadini marocchini francesi, mentre Ong e attivisti lo accusano di reprimere duramente il dissenso nel Rif attraverso i metodi violenti dei suoi agenti. Ma è stato insignito della Legion d’Onore dalla Francia e della Croce al merito dalla Spagna: perché in Marocco non si compie un attentato terrorista dal 2011 (a Marrakech) e per la collaborazione in materia di sicurezza tra Marocco, Francia e Spagna.

Marrakech, il Mausoleo delle tombe sadiane  (2018)  (foto Giorgio Pagano)

Marrakech, il Mausoleo delle tombe sadiane
(2018) (foto Giorgio Pagano)

LA CONDIZIONE DELLE DONNE
La condizione delle donne ha fatto recentemente progressi di grande rilievo, a partire dalla legge sulla famiglia del 2003. Ma rimane una forte inferiorità: il reddito pro capite femminile è un terzo di quello maschile; il 43% delle donne adulte è analfabeta, contro il 24% degli uomini; per 100 studenti universitari maschi vi sono appena 7 studentesse.
La legge del 2003 (moudawana) sancisce ufficialmente l’eguaglianza tra uomini e donne. Le donne dispongono di uno status legale identico a quello degli uomini, e per potersi sposare non dipendono più dall’assenso del padre, del fratello o del tutore; devono inoltre avere almeno 18 anni e non 15 come prima. La famiglia è affidata alla responsabilità condivisa dei due coniugi, che hanno la possibilità di stipulare un contratto per gestire su basi egualitarie i beni acquisiti durante il matrimonio. La donna non deve più obbedienza al marito e se vuole può divorziare. Ma si sono dovuti accettare dei compromessi: la poligamia non è stata abolita, ma resa più difficile, perché per praticarla occorre il consenso della prima moglie, o garantire a tutte le consorti parità di trattamento. Circa l’eredità, la donna ha diritto alla metà della quota ereditata dal fratello. Va aggiunto che la legge è poco conosciuta e rispettata nelle aree rurali, dove le donne sono in gran parte analfabete.
Tuttavia la situazione è in continua evoluzione. Nel 2014 è stato modificato l’articolo del Codice penale che permetteva “ai condannati di abusi sessuali o rapimento di minori, l’impunibilità, qualora sposino la loro vittima”. Purtroppo è accaduto solo dopo il suicidio, nel 2012, della sedicenne Amina a-Filali, costretta a sposare il suo violentatore. Numerosi furono i movimenti di protesta, dopo due anni si giunse alla vittoria: il Parlamento abrogò l’articolo. Si trattò di una piccola vittoria, perché il Codice penale andrebbe completamente revisionato: le donne non godono ancora dei diritti e della protezione che spetterebbero loro. Mail carattere che contraddistingue le donne marocchine è il coraggio, il non arrendersi. Forti sono i loro movimenti e le loro associazioni, il ruolo del cinema e delle scrittrici. Il Reha avviato progetti di modernizzazione e non è insensibile al tema. La strada è ancora lunga, ma nella “transizione” marocchina le donne hanno oggi maggiori opportunità rispetto al passato.Come dimostra anche il loro crescente impegno in politica.

UN PAESE PROFONDAMENTE ISLAMICO, MA NON FONDAMENTALISTA
Subito ci accorgiamo che il Marocco è un Paese profondamente islamico: quando ascoltiamo la voce del muezzin mentre visitiamo il suq;quando notiamo che la bandiera nazionale è rossa con la stella a cinque punte, corrispondenti ai cinque precetti fondamentali dell’Islam; quando anche in un locale della piazza JemaaelFna non possiamo accompagnare con la birragli spiedini grigliati di carne di montone.
Ma la storia marocchina è anche una storia di convivenza tra religioni diverse. Nel XV secolo il Marocco accolse i profughi andalusi scacciati dalla Reconquistacattolica spagnola, accogliendo la grande comunità di religione ebraica, come fecero del resto gli ottomani. Per secoli, fino alla costituzione dello Stato di Israele, i due gruppi religiosi convissero pacificamente, avendo in comune il credo monoteista. Durante la Seconda guerra mondiale, quando le autorità francesi di Vichy, collaborazioniste con i nazisti, provarono a imporre la stella gialla e altre misure discriminatorie agli ebrei marocchini, il Re Mohammed V rifiutò le richieste delle autorità di occupazione.
Questa storia non è un’eccezione, ma è coerente con l’Islam. Negli ultimi anni della vita di Maometto alla Mecca le tribù di Medina (che allora si chiamava Yathrib), da anni in lotta tra loro, mandarono una delegazione alla Mecca per chiedere al Profeta di aiutarle a trovare la via della pace. Portando con sé pochi seguaci nel 622 Maometto andò a Medina e stilò un accordo formale con tutte le tribù, un documento che da allora viene chiamato la Carta di Medina. La Carta stabiliva una sorta di federazione tra le tribù medinesi e gli emigranti musulmani che erano arrivati dalla Mecca,specificava diritti e doveri di tutti gli abitanti e le relazioni fra le differenti comunità (c’erano ebrei e pagani oltre ai musulmani). Bandiva ogni forma di violenza dal territorio della città, vietava l’uso delle armi, ordinava la sicurezza delle donne, stabiliva un sistema giudiziario per risolvere le dispute e aboliva la legge biblica del taglione sostituendola con il pagamento del prezzo del sangue.Fissava diritti e responsabilità di musulmani, ebrei e pagani collocandoli all’interno di una nuova struttura sociale chiamata Umma (comunità). Fu la costituzione del primo Stato islamico della storia e a questa Carta si richiamano ancora oggi studiosi, teologi e tutti coloro che nei nostri tempi perturbati si chiedono quanto pluralismo, quanta tolleranza consenta l’Islam.
Al tema delle fonti del pluralismo nell’Islam è stato dedicato nel mese scorsoun convegno di tre giorni e una masterclassdi una settimana per giovani teologi, imam o semplicemente studenti, organizzato a Casablanca da Reset Dialogues on civilazations insieme alla Fondazione King Abdul Aziz al Saoud, con il contributo di altre organizzazioni marocchine e internazionali. Una maratona con relazioni di studiosi che hanno riflettuto sulle radici del pluralismo e sviscerato le fonti del Corano che rivelano la bellezza della diversità umana, questioni quasi sempre fraintese da una parte e dall’altra della frontiera (immaginaria?) che divide l’Islam dal resto del mondo.
“In un parola -ha scritto Vanna Vannuccini su “Repubblica”- spiegano come lo scontro di civiltà non sia altro che uno scontro di ignoranze”.
In un mondo in cui le forze dell’odio guadagnano terreno, spinte da interessi politici che diffondono il pregiudizio e la paura dell’altro e della sua religione, nel mondo islamico si assiste a un irrigidimento, a una crescita del fondamentalismo. Il Marocco è, relativamente, un’eccezione. Per la sua storia, per i movimenti sociali e culturali che lo percorrono, per la volontà del Re, che è anche la massima autorità religiosa, di propagare la conoscenza dell’Islam come religione di pace e di tolleranza, di moderazione e di convivenza.Forse proprio per questo il convegno si è tenuto in Marocco. Altrove sarebbe stato, purtroppo, più difficile.

Post scriptium: la foto in alto, scattata nel suq, riprende una donna al lavoro per produrre argan; la foto in basso è stata scattata nel Mausoleo delle tombe sadiane.

Giorgio Pagano

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