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Gaza
basta silenzio basta complicità

a cura di in data 10 Giugno 2025 – 22:21Nessun commento

Alaa al-Najjar, pediatra dell’ospedale Nasser di Khan Younis, sta dicendo addio ai suoi nove figli – 2025
(foto archivio Giorgio Pagano)

Città della Spezia, 8 giugno 2025
GAZA
BASTA SILENZIO, BASTA COMPLICITA’

di Giorgio Pagano

Confesso che ho avuto difficoltà a scrivere su Gaza. Troppo orrore, troppo dolore. Giorno dopo giorno ho seguito la tragedia grazie agli amici palestinesi e israeliani che ho conosciuto nei periodi in cui ho vissuto in Palestina per seguire progetti di cooperazione internazionale, con i quali sono rimasto in contatto. Mi viene difficile perfino parlare in inglese – la lingua che parla in Palestina chi, come me, non conosce l’arabo – perché mi ricorda troppo quel popolo martoriato. Mi sono detto: devo superare questo ”blocco”. Anzi, non c’è altro che valga la pena guardare e raccontare più dello sterminio a Gaza. Al di là del dolore causato dalla consapevolezza di quanto l’uomo possa essere disumano. Di più: dobbiamo prendere la parola in prima persona. Anche perché a noi, cittadini di Stati alleati con Israele, verrà chiesto conto di Gaza. E della sua morte: è quello che sta accadendo, il tempo che rimane è pochissimo.
Ho tantissime fotografie, e soprattutto tantissimi video. In questo articolo utilizzerò alcune fotografie e racconterò le storie che ci rivelano, facendo parlare le persone protagoniste.
In alto, sotto il titolo, vedete un’immagine: è tra quelle che all’inizio costringono a far tacere le parole. Ma è giusto non tacere. Alaa al-Najjar, pediatra dell’ospedale Nasser di Khan Younis, sta dicendo addio ai suoi nove figli.
“Sono una mamma come tante altre qui, senza più niente. Questo è il mio destino ed è il destino di troppe persone a Gaza“, ha detto in un’intervista. Alaa ha perso nove dei suoi dieci figli e il marito, anch’egli medico, in un bombardamento israeliano sulla loro casa. Il figlio sopravvissuto, Adam, sarà operato l’11 giugno a Milano. Alaa ha ringraziato chi denuncia la distruzione della Striscia e ha fatto un appello: “Non dimenticate gli altri”.
In un video girato pochi giorni fa ci sono le immagini di un bambino intrappolato in una scuola in fiamme a Gaza City. Quell’attacco, nelle prime ore del mattino, ha ucciso almeno 31 persone, tra cui 18 bambini.
Dall’ottobre 2023 più di 16 mila bambini sono stati uccisi, quasi 40 mila bambini sono stati feriti.


Gaza, il Giardino della Principessa – 2024
(foto archivio Giorgio Pagano)

Qui sopra vedete due immagini di distruzioni, a est di Beit Sahour. Nella prima c’è ancora il Giardino della Principessa, nella seconda non c’è più: l’esercito di occupazione lo ha demolito. Un giardino, certo. Dovreste vedere la spiaggia di Gaza City, i pescatori… Non potete immaginare come Gaza sia città nostra, mediterranea, del nostro mare e della nostra storia. La nostra patria mediterranea oggi è Gaza.
Quello che sta accadendo è un genocidio in corso di attuazione.
L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato che l’effetto combinato di tutte le azioni israeliane nella Striscia minaccia l’esistenza dei palestinesi “in quanto gruppo”. È uno degli atti di genocidio stabiliti dalla convenzione del 1948.
A ciò si aggiunge l’accusa di dirigere intenzionalmente attacchi contro civili che, ha dichiarato la portavoce Ravina Shamdasani, “costituisce un crimine di guerra”.

Gaza, il Giardino della Principessa – 2025
(foto archivio Giorgio Pagano)

I bombardamenti continui e il blocco degli aiuti umanitari privano la popolazione del cibo, dell’acqua, dei medicinali, dell’elettricità. Ci sono la “crisi di sete” e la “crisi di fame”.
Ad Al-Mawasi l’impianto di desalinizzazione, costruito dalla nostra Termomeccanica, è completamente fuori uso. Medici senza Frontiere ha denunciato che la mancanza di acqua e igiene sta causando focolai di poliomielite e scabbia. La ong ha dichiarato di assistere a una “morte lenta”: la fame provoca perdita di peso e problemi medici che la sanità annientata non è in grado di gestire. Anche la Croce Rossa ha fatto sapere che il suo ospedale da campo sta esaurendo le forniture, descrivendo la situazione nella Striscia come “l’inferno in terra”.

Gaza, donna con bambino -2024
(foto archivio Giorgio Pagano)

La donna ritratta in questa foto vive in una tenda. Raccoglie il pane secco dalle strade e tra le tende e lo vende per prendersi cura di un bambino di un’altra famiglia che ha perso i genitori durante la guerra. Anche lei mantiene una famiglia di sei membri, compreso il marito malato. Questa foto mi è pervenuta il 9 maggio 2024. Non sappiamo se la donna, il bambino, la famiglia di lei sono ancora in vita.
Ed ecco un messaggio che ho ricevuto pochi giorni fa:
“Da due anni io e la mia famiglia ci spostiamo di continuo. Ogni giorno evitiamo la morte per caso. Una volta ci siamo rifugiati in un’ospedale, ci hanno bombardato, siamo sopravvissuti. Viviamo in tenda, non abbiamo più nulla, abbiamo malattie della pelle, siamo sempre più magri, con la memoria offuscata”.
Queste persone non stanno morendo in segreto, ma davanti agli occhi di tutto il mondo.
L’obiettivo del governo israeliano – e di quello americano, per quanto Trump sia imprevedibile – è occupare la Striscia e suddividerla, creare alcuni centri di aggregazione per il cibo, esautorare del tutto le Nazioni Unite e affidarsi ai contractor privati, magari con l’ausilio di qualche gang locale, come sta facendo in questi giorni. I palestinesi sopravvissuti vivranno ammassati in piccoli campi di concentramento. Certamente Israele lavora anche per far sì che molti palestinesi siano costretti ad andarsene: ma questo non accadrà, e non solo perché due milioni di gazawi sono troppi e nessun Paese li vuole. Israele sottovaluta la tenacia e la dignità morale dei palestinesi, il loro amore viscerale per la Terra Madre. A Gaza ci sono gli eredi di coloro che furono espulsi dall’attuale Cisgiordania nel 1948, con la “nakba” (catastrofe): hanno ancora le chiavi delle loro case di 77 anni fa, che ormai non ci sono più. Nessun progetto coloniale può far dimenticare la propria Terra Madre.
La Corte Internazionale di Giustizia ha ritenuto plausibile il genocidio e ha emesso più volte delle misure a carico di Israele volte a prevenire o a impedire il genocidio. Il problema che il genocidio pone alla coscienza dell’umanità non è di riconoscerlo o di punirlo, ma di prevenirlo e di impedire che si compia. I Paesi occidentali amici o alleati di Israele, anche se respingono l’accusa di genocidio, hanno ora, in ogni caso, l’obbligo giuridico, non solo morale, di prevenirlo e di impedirlo. Il silenzio è complicità.

Gerusalemme Est, i coloni isrealiani celebrano la Marcia delle bandiere – 2025
(foto archivio Giorgio Pagano)

Numerosissimi sono i messaggi dalla Cisgiordania, in particolare da Jenin, la città martire dove il Comune della Spezia ha realizzato un centro culturale e sociale per i giovani. Più video mostrano la distruzione nel tempo del campo profughi, una città nella città. Lo annunciò il Ministro degli Esteri israeliano Israel Katz, attualmente Ministro alla Difesa, nell’agosto 2024: “il campo profughi di Jenin deve essere trattato allo stesso modo della Striscia di Gaza”. Le immagini scorrono: vedo gli attacchi dei coloni a Hebron, a Wadi Rahal – a sud di Betlemme –, a Tulkarem, nella “Città Vecchia” di Gerusalemme Est, la parte palestinese… Un video mostra i coloni che ballano e cantano per provocare i residenti in via Al-Wad, nella “Città Vecchia”.
Nella foto sopra vedete i bambini dei coloni che fanno gesti osceni durante la “Marcia delle bandiere” del 26 maggio scorso, che ogni anno celebra l’annessione della zona Est della città, quando Israele vinse la guerra del 1967. Ogni anno la tensione è fortissima. Questa volta è andata peggio del solito: bande di giovani ebrei ortodossi e nazionalisti hanno marciato nel cuore della zona musulmana aggredendo i residenti arabi, costretti a nascondersi. “Un giorno importante per noi sionisti” – hanno detto – “vogliamo la sovranità completa su tutto il territorio e non ci importa dei morti palestinesi”.
L’attenzione sulla Cisgiordania si è inevitabilmente ridotta, di fronte a Gaza. Ma l’offensiva dei coloni è senza precedenti. Anche qui si punta a restringere sempre più le aree abitate dai palestinesi – contadini e pastori – e dai beduini e si realizzano a tal fine sempre nuovi avamposti.
I racconti di questi poveri contadini e pastori che si preoccupano della famiglia e insieme delle pecore e degli animali – la fonte della loro vita – quando i coloni bruciano le stalle, fanno venire in mente lo stesso terrore dei contadini italiani di fronte alle razzie naziste e fasciste del 1943-1945.
Memori del nostro impegno a Jenin, con cui siglammo un protocollo di intesa in vista di un gemellaggio trilaterale con la città israeliana di Haifa, abbiamo il dovere, come città, di fare qualcosa. Qualunque cosa oggi possa essere utile. Lo stanno facendo, con Jenin, tante città francesi. Il Sindaco di La Chapelle – sur – Erdre, una cittadina della Loira Atlantica, ha annunciato che trasformerà il “protocollo di amicizia” siglato nel 2019 con il campo profughi di Jenin in un vero e proprio gemellaggio. Se non si vuole avere rapporti con l’amministrazione palestinese, si sviluppino legami diretti con la società civile. Ne avevamo tantissimi. Basterebbe anche solo un gesto umanitario.

NON C’E’ PIU’ TEMPO
Il 20 maggio scorso Kaja Kallas, Alto rappresentante dell’Unione europea per la politica estera, ha dichiarato: “A Gaza la situazione è catastrofica. Una forte maggioranza vuole la revisione dell’accordo di associazione con Israele”. In due settimane non è accaduto nulla. Nessuno fa sul serio, tranne il governo spagnolo.
L’Italia è tra chi fa peggio. Nel caso di un governo nazionale non basta il gesto umanitario, quello per Adam, il figlio superstite di Alaa al-Najjar. Il punto è che il nostro governo non condanna Netanyahu, non vuole riconoscere lo Stato di Palestina, è contrario alla revisione dell’accordo di cui ha parlato la Kallas. Non solo: non denuncia il Memorandum d’intesa fra il governo italiano e quello di Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa. Continuiamo a fornire armamenti a Israele: sono aerei di addestramento, che non vanno a bombardare, ma pur sempre armi sono. Così come continuiamo a comprare armi da Israele, finanziando indirettamente la sua guerra.
Ma è tutta l’Europa che, drammaticamente, non è all’altezza. Proprio quando salvare Gaza significherebbe anche salvare l’Europa. Perché a Gaza sta morendo anche la moralità dell’Europa.
Le cose le ha dette con chiarezza il 24 aprile scorso – anche se avrebbe dovuto dirle prima – il predecessore della Kallas, Josep Borrell:
“Contrariamente a quanto spesso si dice, e nonostante la totale mancanza di empatia di alcuni dei suoi leader, l’Ue dispone di numerosi strumenti di azione nei confronti del governo israeliano: siamo il suo primo partner in termini di commercio, investimenti e scambi di persone. Forniamo almeno un terzo delle armi importate da Israele e abbiamo concluso con questo paese l’accordo di associazione più ampio in assoluto. Tuttavia, come gli altri, anche questo accordo è subordinato al rispetto del diritto internazionale, in particolare del diritto umanitario. Se lo vogliamo, possiamo agire. E abbiamo già aspettato troppo”.

UNA NUOVA STRATEGIA ANTICOLONIALISTA IN PALESTINA
La vita dei palestinesi è cinicamente messa in gioco da Hamas. Nel momento in cui denunciamo il genocidio di Israele, non dobbiamo dimenticarlo.
Nelle macerie delle loro città e delle loro case, i gazawi non vedono le decantate vittorie di Hamas, ma l’insensata distruzione della loro esistenza sociale. Quello che chiedono è il cessate il fuoco, ogni possibile politica di emergenza urgentemente centrata sui loro bisogni di sopravvivenza. La stragrande maggioranza dei palestinesi che conosco vuole una resistenza con forme di lotta pacifica. Lo si vede bene nel documentario “No Other Land”. Qualcuno mi dirà: ma senza armi come si combattono i “cattivi”? Con la ricerca della pace, del dialogo anche tra nemici, della riconciliazione tra i popoli. Come ci ha insegnato Nelson Mandela. Come ha deciso di fare il Pkk, il partito dell’indipendentismo curdo.
Le speranze stanno nei popoli: di tutto il mondo, di Palestina e Israele in particolare.
Sull’orlo dell’annientamento e dell’espulsione, solo l’azione collettiva e la solidarietà possono guarire la società palestinese e permettere di reagire alla nuova “nakba”.
E’ una sfida difficile, ma il popolo palestinese, alla ricerca di una nuova strategia di emancipazione anticolonialista in grado di salvaguardare il suo futuro in patria, che prenda le distanze dall’esaurimento della politica delle attuali classi dirigenti, sia a Gaza che in Cisgiordania, ha le risorse morali e politiche per farcela.

ASCOLTA, ISRAELE
Tuttavia la questione chiave oggi non è la resa dei conti politica e storica che è necessaria in Palestina.
La questione chiave è, in tutta evidenza, se è possibile un altro Israele, contro il genocidio e l’occupazione.
Conosco bene Israele e ho amici israeliani. Ero a Tel Aviv quando, nel 2019-2020, si sviluppò la protesta contro la corruzione di Netanyahu. L’occupazione della Palestina non era considerata degna di contestazione. Dopo il 7 ottobre, chi ha combattuto Netanyahu in nome della liberazione degli ostaggi era in gran parte favorevole alla guerra. Ora sta avanzando una critica alla politica militare del governo in nome della sicurezza.
Tamir Hayman, direttore del centro Israeliano Institute for National Security Studies, orientato a destra, ha sottolineato il paradosso di Gaza: “Ciò che guadagniamo in risultati militari, lo perdiamo in sicurezza nazionale”. A suo parere sostituire Hamas con l’occupazione potrebbe condurre alla sua perpetuazione nel momento in cui Israele vede la sua economia in caduta libera, la sua immagine internazionale peggiorare e la sua resilienza interna logorarsi. Ha concluso: “Un’amministrazione militare è una buona soluzione militare, ma Gaza non è soltanto una questione militare”.
Cessare il fuoco, fermare il genocidio: questo deve essere il primo, fondamentale, passo. E cacciare Netanyahu. Ma poi Israele deve affrontare di petto il punto di fondo: l’occupazione, la decolonizzazione. Cresce il numero di coloro che parlano di “crimini di guerra”: per esempio l’ex primo ministro Olmert. Forse qualcosa sta sorgendo nella coscienza collettiva israeliana.
Alcuni giorni fa gli attivisti di “Standing together” si sono diretti verso la recinzione della Striscia, in attesa di poter consegnare gli aiuti: ”Protestiamo contro l’annientamento di Gaza, siamo qui contro la fame”. Erano alcune migliaia.
Come ha scritto il mio amico storico Franco Cardini, che non è più da tempo il fascista che alcuni credono sia ancora:
“Ascolta, Israele. Noi ti amiamo tutti davvero, noialtri uomini e donne di buona volontà: rispettiamo la tua sofferenza millenaria, facciamo nostra la memoria sacrosanta della Shoah. Non permettere che questa tua eredità sublime venga profanata da un mostro che bestemmia quando afferma a tua volta di amarti. Basta col martirio di Gaza. Basta con i morti innocenti. Riprendi il tuo cammino: combatti, lavora, resta degna di te stessa. Liberati dai fantasmi sanguinari che sono obiettivamente i peggiori antisemiti. Liberati dal tuo nemico che marcia ancora alla tua testa”.
Sono sempre i governi a iniziare le guerre, sono sempre i popoli a fermarle. Tocca a tutti noi. Ma in primo luogo al popolo israeliano.

Postscriptum
Dedico questo articolo ad Alì Rashid, palestinese che viveva in Italia, da sempre impegnato su più fronti per la liberazione del suo popolo. Con l’Associazione Culturale Mediterraneo venne subito, nel 2009: in un’iniziativa di dialogo con l’israeliana Manuela Dviri. Poi ci rivedemmo in tante occasioni.
Era una persona nobile e gentile, aveva un grande cuore. È stato il vero e degno rappresentante della Palestina. Non si è mai risparmiato in una vita fatta di esilio e dolore.
Così si conclude il suo ricordo, inviatomi dai suoi amici in Palestina:
“Sei rimasto puro come ti conoscevamo e ci hai salutato come ti si addiceva… grande, generoso e a testa alta”.

Giorgio Pagano

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