Chi ci perdonerà?
Le Monde, 5 febbraio 2025,
di Jacob Rogozinski
Il filosofo, discendente di sopravvissuti alla Shoah, manifesta la sua indignazione per le sofferenze inflitte ai civili palestinesi e per il rifiuto del governo israeliano e di parte della popolazione di riconoscersene autori
Provo grande gioia all’annuncio dell’accordo del cessate il fuoco a Gaza e alla liberazione degli ostaggi israeliani. Tuttavia la mia gioia è mista ad un sentimento molto diverso. Tutto ciò avviene troppo tardi: si sarebbero potuti evitare tante sofferenze e tante morti! Anche se il cessate il fuoco conducesse finalmente ad una pace durevole, come dimenticare che, per più di un anno, Benyamin Netanyahu e il suo esercito hanno affamato e massacrato delle popolazioni civili? Che hanno distrutto la maggior parte delle abitazioni, degli ospedali e delle scuole a Gaza; e che i membri più estremisti del suo governo progettano sempre una nuova colonizzazione di questo territorio e l’espulsione dei suoi abitanti?
Così facendo, la destra e l’estrema destra israeliane hanno preso tutti gli Ebrei in ostaggio, quelli di Israele come quelli della diaspora. Ne hanno fatto dei complici dei loro crimini e lo hanno fatto a nome del popolo ebraico, cioè anche “a nome mio”. Per la prima volta nella mia vita provo vergogna ad essere ebreo. Ma non è la vergogna di una volta, la vergogna di coloro che venivano insultati, che venivano umiliati, che venivano rinchiusi nei ghetti: è una nuova specie di vergogna, inusitata nella lunga storia del nostro popolo, quella di essere complici di una carneficina.
Figlio di sopravvissuti della Shoah, sono nato e sono vissuto in pace in Francia, dove mai sono stato bersaglio e nemmeno testimone diretto di un atto o di una parola antisemita. Il disastro che ha annientato tanti dei miei mi ha giovato: mi ha gratificato di una robusta buona coscienza. Mi ha dato la certezza di essere sempre dalla parte giusta, dalla parte delle vittime della storia, di coloro che hanno subito un torto, e ciò mi ha impedito di vedere un altro torto di cui, mio malgrado, ero complice.
Chiedere perdono
Dall’indicibile orrore della Shoah era nato lo Stato d’Israele, rifugio per tutti gli ebrei perseguitati. Per dei sopravvissuti come i miei genitori, ciò significava che, forse, l’orrore non si sarebbe ripetuto. In questo modo l’esistenza di Israele era una benedizione, e ognuna delle sue azioni era benedetta. Ciò esonerava dall’interrogarsi sulle ingiustizie che avevano preceduto e seguito la sua nascita.
Sono andato parecchie volte in Israele. Prima con i miei genitori che volevano rivedere gli amici di una volta – quei pochi che erano sopravvissuti. Poi, da adolescente, per lavorare al raccolto di frutta in un kibbutz in Galilea. E recentemente ancora, invitato in diverse Università. Non mi sono mai sentito “a casa” in quel paese, eppure ero felice di esserci, felice di farne parte. Avevo l’impressione di partecipare – senza pagarne il prezzo – all’esaltante avventura dei pionieri che, mi avevano insegnato, avevano “fatto rifiorire il deserto”. Non sapevo, non volevo sapere che quella terra non era mai stata deserta; che apparteneva già a un altro popolo e che ne era stato spogliato; che la creazione di Israele aveva costretto all’esilio centinaia di migliaia di uomini e donne; che questa ingiustizia aveva creato sempre più ingiustizia, sempre più violenza. Non volevo vedere che, a poco a poco, Davide si era trasformato in Golia. La passione dell’ignoranza è una passione potente, ed è ancor più scandalosa quando riguarda chi pretende di essere “filosofo”.
Diversamente da altre religioni, il giudaismo concede maggior importanza alla pratica che alla credenza, il che permette di pregare senza per forza essere “credente”. Alla giovane Hannah Arendt che dichiarava a un rabbino che aveva perso la fede, questi le rispose: “Chi le ha chiesto di avere la fede?”. Mio padre diceva di essere “anarchico e ateo” (e, con grande scandalo dei suoi amici, affermava che i Palestinesi avevano il diritto di avere il proprio Stato). Questo non gli impediva di essere il cantore della nostra piccola comunità e, nei giorni di festa, di cantare le preghiere piangendo. Dovevo avere 10 anni quando ho osato chiedergli perché pregava mentre diceva di essere ateo. Mi ha risposto: “Prego per i morti”. Diventato adulto, ho deciso di seguire il suo esempio. Mi sembrava possibile rivolgermi a Qualcuno, senza sapere se esisteva da qualche parte e se sentiva la mia voce.
Quest’anno ho smesso di farlo. Come chiedere perdono per le nostre colpe pregando insieme a coloro che approvano un massacro? Come invocare l’Altro, un ebreo lo deve fare con altri ebrei – per lo meno dieci di loro – perché la loro invocazione è quella che rinnova la sua alleanza ogni volta che si rivolge al suo Dio. Oggi quel popolo è colpevole di mancanza, fa difetto.
Aggressione feroce
Fare difetto è più grave che commettere una colpa, perché chi commette quella colpa può prima o poi riconoscerlo, e chiedere perdono, mentre colui che fa difetto non può neanche riconoscere di essere l’autore di una colpa. Questo è quello che succede ormai a gran parte degli Israeliani. La feroce aggressione subita da Israele lo ha accecato, anestetizzato, privato da ogni senso etico, di ogni empatia nei confronti delle altre vittime di questa guerra, per le loro, ma anche per i civili palestinesi innocenti massacrati dal loro esercito. È in questo che questo popolo ha mancato. Dicono “Per noi ogni giorno è il 7 ottobre”.
Sono io ad avere «tradito” il mio popolo nel protestare contro la carneficina, come mi si è rinfacciato, oppure è stato il mio popolo a tradirsi? “Non il mio popolo” aveva ordinato una voce a Osea, profeta dei tempi biblici, imponendogli di chiamare così suo figlio. Questo significa, prosegue la voce, “Lo-‘Ammi”: “Non siete il mio popolo e io non sono il vostro Dio. Ma verrà un giorno in cui perdonerò, in cui dirò a Non-il-mio-popolo: “Tu sei il mio popolo” ed egli mi risponderà: “Mio Dio”.”
Chi profetizzerà oggi? Chi ci perdonerà queste decine di migliaia di uomini, di donne e di bambini affamati, mutilati, assassinati, se non riusciamo a chiedere perdono per questi crimini? Se riesco di nuovo a pregare, pregherò per un popolo che avvenga, un popolo che sia degno dell’alleanza.
Jacob Rogozinski
è professore emerito della facoltà di Filosofia di Strasburgo e autore fra l’altro di Moïse l’insurgé [Mosè l’insorto] (edizione du Cerf, 2022) e di Inhospitalité [Inospitalità] (stesso editore, 2024)
Il testo è stato tradotto da Hélène Colombani Giaufret
103 total views, 2 views today