Gorbaciov e il sogno di un mondo nuovo
Città della Spezia, 11 settembre 2022
di Giorgio Pagano
La scomparsa di Mikhail Gorbaciov mi ha riportato con la memoria agli straordinari anni della fine della “Guerra fredda” e del sogno della pace mondiale. Nel luglio 1989, su invito del PCUS di Gorbaciov, trascorsi tre settimane in URSS con una delegazione del PCI, di cui ero allora un dirigente. La Piazza Rossa -rossa in russo significa bella- è adiacente alle mura orientali del Cremlino, dal cui punto più alto svettava ancora la bandiera rossa che vedete nella foto in alto, ammainata nel 1991.
Facemmo molti incontri con i dirigenti del partito, dello Stato, degli organi di stampa. Colpivano da un lato la frenesia -“stiamo facendo una rivoluzione”, ci dicevano-, dall’altra la cautela, quella dei burocrati del partito che a quella “rivoluzione” si opponevano. Incontrammo anche i primi gruppi informali “tollerati” dal nuovo potere riformatore. Un gruppo ecologista ci raccontò tre interventi, tutti con esito positivo, per bloccare disegni o del governo o degli enti locali considerati inquinanti.
Europa e Russia sembravano unite come non mai. Alla sera, a Mosca, passeggiavo nell’Arbat, la via pedonale, piena di artisti e di musicisti. Come a Roma o Londra o Parigi. Erano in corso i preparativi per il grande concerto del 12 agosto allo stadio Lenin: lo sbarco del rock in URSS, con i Bon Jovi, Ozzy Osbourne e tanti altri. Solamente i jeans erano ancora merce di contrabbando.
Gorbaciov era un comunista riformatore che voleva salvare il socialismo coniugandolo alla democrazia. Chiamava tutto ciò “perestrojka” (ricostruzione). L’altra sua parola chiave era “glasnost”: verità, trasparenza, libertà contro le ottusità del regime. Cito qualche frase degli appunti presi in quegli incontri.
Karen Brutens, primo viceresponsabile Esteri del PCUS: “Dobbiamo costruire non solo lo Stato democratico di diritto, ma anche il ‘partito di diritto’. Il partito dev’essere democratico e non deve decidere su tutto. Deve decidere su quel che confà al partito: le questioni politiche e ideologiche. Non le questioni economiche, che competono allo Stato, alle aziende statali, alle cooperative, alla società. Bisogna spezzare il sistema amministrativo di comando del partito. Il partito deve rinunciare a questi metodi, vale anche all’interno del partito e nel rapporto partito-masse. Il momento decisivo è il ‘basso’, non l’’alto’. Da qui scaturiscono tutte le difficoltà. Siamo in ritardo. Non sono stupito, ci vuole tempo. Anch’io ogni tanto penso alla vecchia maniera. Alla base abbiamo cambiato l’80% dei quadri dirigenti, ma può darsi che dobbiamo cambiare anche questi”.
Concetti analoghi li espresse Pavic, vice responsabile Organizzazione: “Il partito deve passare poteri allo Stato, alla società, ai Soviet. Dobbiamo vincere la malattia del passaggio dall’’alto’ al ‘basso’: tutta una generazione di quadri è stata educata così. Nella pratica della concezione dello Stato di diritto alcune democrazie borghesi sono andate più avanti di noi: non abbiamo nessuna vergogna a dirlo, c’è ancora un lungo lavoro da fare. Non è un peccato imparare dai socialdemocratici e dai liberaldemocratici. Il pluripartitismo non può essere escluso”.
Ma sentimmo anche parole più prudenti e reticenti, ed esaltazioni ipocrite e mielose della “perestrojka”. Il più potente ostacolo alle riforme, da cui derivò la sconfitta di Gorbaciov, era proprio il PCUS. Brutens rispose a una mia domanda in riunione dicendo: “A parte sono disponibile a valutazioni personali”. Nei corridoi mi disse: “Il vero avversario è la maggioranza dei dirigenti del partito”.
Ciò che mi colpì più di ogni altra cosa fu il “nuovo modo di pensare” il mondo del gruppo raccolto attorno a Gorbaciov. Capivo tutta la difficoltà a riformare il “socialismo reale”. Lo sgretolamento del sistema era già cominciato sul finire degli anni Cinquanta, poi era diventato sempre più evidente. Tuttavia ci speravo soprattutto perché quel gruppo avanzava una proposta di “Casa comune europea dall’Atlantico agli Urali”, in una prospettiva di pace, disarmo, integrazione di popoli e sistemi, globalizzazione del convivere che era davvero una grande idea per il futuro del mondo. La cooperazione al posto dell’antagonismo: un’idea che diede risultati straordinari in quei pochi anni ma che fu purtroppo abbandonata con la sconfitta di Gorbaciov e con la rinuncia dell’Occidente a praticarla ancora.
Non incontrammo Gorbaciov ma il numero due, l’ideologo della “perestrojka” Alexander Yakovlev. Una personalità di grande rilievo. Il 7 luglio fummo invitati alla sua conferenza in occasione dei 200 anni della Rivoluzione francese (nella foto in basso potete vedere la riproduzione dell’invito). Ne fui molto colpito. Leggo nei miei appunti: “La Rivoluzione francese ha un carattere universale, quella russa ne è figlia. Il liberalismo ha trascurato il tema della proprietà, quella russa il tema della libertà e dello Stato di diritto”. Commentavo: “Ha criticato Stalin in nome di Lenin, ma anche Lenin in nome della socialdemocrazia”.
Avanzava, con Gorbaciov, una visione del mondo umanistica che aveva molti punti in comune con altre tradizioni culturali e religiose: il mondo è interdipendente, i problemi del genere umano non possono più essere pensati secondo logiche di contrapposizione di sistemi, il rischio della guerra nucleare come quello del disastro ecologico si evitano solo con la cooperazione. C’era una sintonia con il pensiero del socialdemocratico tedesco Willy Brandt, secondo cui, chiusa l’epoca dei “riformismi nazionali”, cominciava quella dell’europeismo socialista. C’era in entrambi il superamento dei vecchi retaggi per tornare ai principi originari del socialismo, all’affermazione della libertà solidale del genere umano e della fratellanza. Così come c’era una sintonia di Gorbaciov con il pensiero della nonviolenza. Non a caso il cartello delle associazioni spezzine che ogni lunedì dà vita al presidio “Cessate il fuoco! Se vogliamo la Pace, prepariamo la Pace”, l’ultima volta ha scelto di leggere il testo della “Dichiarazione di Nuova Dehli” di Mikhail Gorbaciov e Raijv Gandhi, del 27 novembre 1986. I due uomini politici, a nome dell’URSS e dell’India, chiedevano un totale rovesciamento della politica di dominio e di guerra e proponevano di costruire un mondo libero dalle armi nucleari e nonviolento in cui la vita umana fosse considerata il valore supremo.
Gorbaciov fallì in URSS ma salvò la pace. Fu lui ad aprire i colloqui con il Presidente americano Ronald Reagan -oggi sembra incredibile- per la distruzione delle armi nucleari e per il disarmo. Poi l’Occidente gli preferì Eltsin, predecessore di Putin, e scelse il riarmo al posto del dialogo. Nel 1991 Gorbaciov, in occasione del conferimento del Nobel per la pace, disse: “Se la ‘perestrojka’ dovesse fallire, svanirà la prospettiva di entrare in un nuovo periodo di pace nella storia”. La “Casa comune” non nacque, per colpa dei nemici di Gorbaciov in URSS ma anche dell’intero Occidente, che non mantenne le sue promesse. Stiamo vedendo come è andata a finire: siamo nuovamente al “noi” contro “loro”, al fossato di odio e alla folle corsa al riarmo.
Intanto il socialismo è sostanzialmente scomparso. Sono tornato in Russia nel 2006. Un capitalismo senza regole si era affermato sulle rovine di un grande Paese. Dentro uno tsunami di soldi e di corruzione c’era chi stava meglio e chi stava peggio. Come ha scritto Svetlana Aleksevic: “La scoperta dei soldi fu come una bomba atomica e un’intera civiltà finì in una discarica”. Ma anche il socialismo europeo non se la passa molto bene. In fondo sia il “comunismo socialdemocratico” del PCI che la socialdemocrazia europea avevano beneficiato dell’esistenza dell’URSS: perché quella stessa esistenza, pur tra errori e tragedie, aveva costretto il capitalismo a “umanizzarsi”. Dopo il 1989 ci fu, non a caso, la svolta neoliberista sia del “comunismo socialdemocratico” che della socialdemocrazia. Sembrava la “fine della storia”. Da allora si perse la capacità di guardare il passato e di immaginare il futuro. In realtà il flusso della vita e della storia è inarrestabile. Come ha scritto il filosofo Alfonso Maurizio Iacono la grandezza della mente dell’uomo sta “nell’arrestarsi di fronte al flusso della vita e della storia”, perché in questo modo “riesce a rendere visibile ciò che è invisibile”. Iacono si chiede: “Cos’è la meraviglia se non un fermarsi per guardare il mondo con altri occhi? Oggi ne siamo ancora in grado? Siamo diventati troppo creduli e troppo stupidi per esserlo, incapaci di saper distinguere […] la conoscenza dal flusso della vita e della storia. Come in un inferno dantesco, condannati all’ansia, al panico e alla depressione in un presente senza storia che crediamo di amare come si amano le dipendenze che ci rendono liberamente schiavi, se non troveremo al più presto il tempo per fermarci, finiremo con il non riuscirci più”. Dobbiamo fermarci per studiare e ripensare tutto, e rimettersi all’opera, quando tutto è o pare perduto, ricominciando dall’inizio. Sulla propria tomba, nel documentario-intervista di Werner Herzog “Meeting Gorbachev” (2018), l’ultimo Presidente dell’URSS confessa a Herzog il desiderio di veder scolpite le parole che Willy Brandt -altro gigante perdente- aveva immaginato per la propria lapide: “Ci abbiamo provato”. Dobbiamo continuare a “provare”, a cercare di pensare il mondo nuovo.
Post scriptum
Dedico l’articolo di oggi a un amico che se ne è andato, Agostino Ruggero Grasso, partigiano “Tino”, per tutti “Gustinoli”, l’ultimo partigiano di Monterosso. Ho raccontato la sua storia nell’articolo di questa rubrica “Gustinoli, un mazziniano al Monteverdi” (23 aprile 2017). “Gustinoli” divenne partigiano a 19 anni, nei primissimi mesi del 1944. Così nacque la sua “scelta morale”: “Avevo un debole per l’opera, davano la Tosca al Monteverdi, cantava il grande tenore Mario Filippeschi… c’erano i giovani della Repubblica di Salò che facevano i gradassi e i prepotenti… ho sentito una grande rabbia… non mi andava giù la negazione della libertà, la mia fu una reazione spontanea contro l’autoritarismo”. Fu Giovanbattista Nicora, comunista del CLN, a contattarlo per diventare staffetta, prima nella “Brigata Costiera”, poi nella “Gramsci”. “Gustinoli” era mazziniano: “Nel dopoguerra fui sempre iscritto al Partito Repubblicano, fino a quando non si schierò con Berlusconi… da allora sono un repubblicano di sinistra senza tessera”. Era un pescatore che amava il mare e la libertà. Non ha mai chiesto nulla, non mancava mai, con la bandiera dell’ANPI, a ogni manifestazione. Nel “flusso della vita e della storia” non rinunciamo mai a “trovare il tempo per fermarci” a ricordare che fu grazie a tanti uomini semplici come “Gustinoli” -e gli altri 62 partigiani di Monterosso, quasi tutta la gioventù di un piccolo paese- che l’Italia conquistò la libertà.
lucidellacitta2011@gmail.com
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