Razzismo e disuguaglianze nel sistema dell’aiuto, cresce il dibattito sulla decolonizzazione
Info Cooperazione, 28 Giugno 2021 – Nel mondo anglosassone il dibattito sul razzismo e le dinamiche di disuguaglianza di potere nel sistema degli aiuti internazionali e della cooperazione è ormai diventato mainstream; se ne parla da tempo nei forum e nelle conferenze che mettono a confronto gli attori del sistema degli aiuti a partire dal mondo delle NGO’s, passando per i donor e le organizzazioni internazionali. Il tema è stato recentemente al centro della grande conferenza annuale delle ONG britanniche (Bond), dove attivisti ed esperti del settore hanno parlato in modo esplicito di come le risorse e il potere del “sistema Aid” restino nella rete di organizzazioni in gran parte con sede nel Nord del mondo.
Lo slogan del dibattito è “decolonizzare lo sviluppo, gli aiuti umanitari e la costruzione della pace”, smantellando le strutture e le norme discriminatorie nascoste all’interno del sistema degli aiuti. Una discussione che vista dal contesto italiano della cooperazione può sembrare quasi eccessiva e che assume sempre più i toni dell’urgenza sotto la pressione di stakeholder influenti e dell’opinione pubblica che chiede una repentina trasformazione del sistema influenzata da campagne d’opinione come “Black Lives Matter” che nel mondo anglosassone hanno fortemente segnato il dibattito pubblico degli ultimi anni. Una discussione che chiama in causa politici, donatori, professionisti, accademici e attivisti ad affrontare quello che viene definito un razzismo “strutturale” di un sistema che già al World Humanitarian Summit” di Istanbul nel 2016 aveva preso l’impegno di affrontare le disuguaglianze al su interno e di cambiare in modo che potere e risorse possano essere progressivamente trasferite agli attori locali.
Un gruppo di ONG inglesi che si stanno dedicando a questo tema hanno messo in campo a fine 2020 una consultazione online che ha coinvolto un gruppo selezionato di 158 attivisti, decisori accademici, giornalisti e professionisti in tutto il mondo allo scopo di verificare come e dove il razzismo si manifesti nel loro lavoro e di come immaginano un sistema decolonizzato che sia veramente inclusivo e alla pari. Sulla base dei risultati di questo lavoro Peace Direct ha redatto un rapporto dal titolo “Time to Decolonise Aid”, che racchiude risultati, raccomandazioni, spunti e argomenti emersi durante la consultazione.
Nel report sono analizzati e sintetizzati i principali ambiti dove il “razzismo strutturale” si manifesta in modo particolare:
- Reclutamento: pregiudizi impliciti nel reclutamento di personale bianco istruito in occidente per le posizioni dirigenziali a scapito del personale istruito a livello locale;
- Strategie: enfasi su professionalizzazione e imparzialità che implicitamente svalutano la conoscenza e le modalità lavorative locali. Strategie organizzative che privilegiano la crescita delle entrate e dello staff piuttosto che lo spostamento di potere verso gli attori locali.
- Creazione della Conoscenza e Analisi: preferenza implicita per l’analisi “occidentale” sui contesti nel Sud del mondo. Ciò comprende ad esempio anche il dominio dei modelli occidentali di monitoraggio e valutazione e l’elaborazione di teorie del cambiamento (ToC) elaborate da operatori del Nord senza coinvolgimento di attori locali.
- Finanziamento: bandi limitati alle ONG occidentali o alle ONG di determinate dimensioni e struttura, richiesta di specifici requisiti gestionali che vanno ad escludere automaticamente le organizzazioni locali.
- Linguaggio: frequenti riferimenti alla bassa capacità degli attori locali e dei “beneficiari” di implementare attività e raggiungere risultati.
- Relazioni: creazione di reti e modi di lavorare che privilegiano i rapporti tra persone del Nord del mondo, comprese discussioni informali dove vengono prese decisioni sull’allocazione delle risorse;
- Organizzazione: struttura e gestione degli uffici nazionali delle organizzazioni volta a consolidare l’impronta dell’organizzazione stessa piuttosto che ridurla nel tempo;
- Partnership con attori locali: donatori e ONG che cercano “partner attuatori” con conseguente depotenziamento delle partnership che si concentrano sulla relazione con un unico appaltatore-contraente;
- Raccolta fondi: gli operatori della raccolta fondi e della comunicazione delle ONG che ritraggono persone del Sud del mondo come impotenti per generare empatia e finanziamenti, e per rafforzare l’idea del “salvatore bianco” o della ONG “professionale”.
Nel report sono state evidenziate alcune raccomandazioni per i diversi attori che interagiscono nel mondo della cooperazione e dell’aiuto. Le prime si rivolgono a donatori, organizzazioni e responsabili politici:
- Riconoscere che esiste un razzismo strutturale: Riconoscere che esiste il razzismo strutturale non cancella il bene che fa il settore né significa un rifiuto completo dell’assistenza/cooperazione internazionale. Questo riconoscimento non implica una colpa personale ma va affrontato come responsabilità collettiva.
- Incoraggiare il dialogo con i beneficiari e le comunità sul potere: Dedicare tempo ad ascoltare le preoccupazioni di gruppi e comunità locali sugli squilibri di potere nel sistema consentendo l’opportunità di critica e l’espressione di feedback da parte dei beneficiari.
- Creare spazio per il cambiamento: Donatori e ONG dovrebbero creare più spazi e opportunità per gruppi locali, organizzazioni e beneficiari per condividere esperienze e strategie dando spazio ai più emarginati, come donne, giovani e persone disabili.
- Attenzione al linguaggio: La rivalutazione del linguaggio attualmente in uso può aiutare a intraprendere approcci nuovi, inclusivi e creativi. I donatori e le ONG dovrebbero eliminare gradualmente i termini che non sono più appropriati, come ad esempio “beneficiari”, “capacity building” e persino “aiuti”.
- Incoraggiare una cultura di apertura alla critica: Creare le condizioni e gli strumenti per poter riportare episodi di razzismo e/o discriminazione.
- Finanziare con coraggio: Un invito ai finanziatori a creare percorsi di finanziamento sempre più accessibili e inclusivi, nonché ad accettare maggiori livelli di incertezza e di possibile fallimento aprendo le porte all’innovazione e ad approcci di finanziamento flessibili.
- Reclutare in modo diverso: Le organizzazioni dovrebbero abbandonare la ricerca di personale espatriato per qualsiasi posizione basata all’estero. Si dovrebbe invece presumere che tutte le posizioni possano essere ricoperte da personale locale.
- Investire nella conoscenza “indigena”: I finanziatori e le organizzazioni dovrebbero investire in ricercatori locali piuttosto che finanziare i viaggi dei ricercatori occidentali. Quando si progetta un programma, le ONG dovrebbero lavorare con i leader locali per esaminare i modelli esistenti, i logframe e le teorie del cambiamento, e adottarne di nuovi radicati negli approcci locali.
Altre raccomandazioni sono riservate nello specifico al mondo delle ONG:
- Niente più raccolte fondi pietiste: Le ONG dovrebbero porre fine alla pratica dell’uso di immagini e linguaggio che sminuiscono la dignità delle comunità nei materiali di raccolta fondi/marketing.
- Adottare una mentalità di transizione per le strategie organizzative: Le ONG dovrebbero prendere in considerazione l’adozione di una mentalità di transizione, fissando chiari obiettivi di trasferimento di poteri e risorse alle organizzazioni locali.
- Rivalutare le partnership con le organizzazioni locali: Le ONG dovrebbero porre fine alla pratica di cercare “partner attuatori” a breve termine e stabilire invece partnership strategiche a lungo termine che non siano determinate esclusivamente dai cicli di progetto.
Sarà pure eccessivo il dibattito nel mondo delle charity inglesi ma altrettanto eccessiva sembra essere l’assenza di questi temi dal dibattito nel sistema nostrano della cooperazione e dell’aiuto. Molti spunti possono sembrare noti e largamente dibattuti in passato ma meritano una rivalutazione alla luce del contesto attuale del settore che comunque non sembra stato in grado di dare risposte soddisfacenti in merito nonostante le evoluzioni in atto. Il primo passo è sicuramente il riconoscimento del problema e l’assunzione da parte di tutti gli attori della responsabilità collettiva di dover agire per una transizione necessaria verso un sistema dell’aiuto più paritario e inclusivo.
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