A Gaza, il futuro ferito
Le Monde, 24 maggio 2025
Distruzione delle scuole, delle università, degli ospedali, delle fabbriche, delle strade…Il modo in cui Israele porta avanti la sua guerra nell’enclave palestinese mira a privare i suoi abitanti di ogni prospettiva d’avvenire per incitarli a lasciare la loro terra.
di Samuel Forey (Gerusalemme, corrispondente) e Clothilde Mraffko
Il 20 gennaio, Mohammed Al-Najjar è tornato a casa a Rafah, all’estremità sud della striscia di Gaza. Il giovane avvocato di 24 anni trasferitosi in seguito ai bombardamenti israeliani a Deir Al-Balah, nel centro dell’enclave, ha approfittato della tregua, entrata in vigore il giorno prima, per andare a vedere la casa di famiglia, accompagnato dal fratello. Sul posto, i due scoprono che l’edificio di sei piani è diventato un mucchio di rovine in cui si mescolano ferro, pezzi di mobili e di plastica.
Mohammed, che è cieco, racconta la scena per telefono come descritta dal fratello dall’ultimo piano di un immobile di Deir Al-Balah dove ha trovato una connessione. Le autorità israeliane proibiscono tuttora ai giornalisti esteri di penetrare nel territorio palestinese. La conversazione è interrotta dal rumore secco delle armi automatiche, molto vicino. “Nel nostro quartiere, non rimaneva che un solo edificio in piedi: una casa incendiata ove nessuno possa vivere, racconta Mohammed. Non riuscivamo più a raccapezzarci, a ritrovare la nostra via, le case. Non c’era più nulla.”
La descrizione vale per la quasi totalità di Rafah. La città, che aveva circa 250 000 abitanti prima del 7 ottobre 2023, è stata come distrutta da un enorme maglio. Secondo un’analisi del servizio video di Le Monde, realizzata sulla base di immagini satellitarie, il 68 per cento delle costruzioni è stato raso al suolo. Le costruzioni che sono sfuggite al diluvio di bombe e di missili che hanno colpito la città durante gli ultimi 19 mesi, sono state distrutte con il bulldozer, quartiere dopo quartiere. I rari edifici che stanno ancora in piedi sono devastati dentro.
Scacciata fuori dalla storia
Rafah, porta che dà sul Levante, che ha visto passare Bonaparte e il generale britannico Allenby, sembra essere stata cancellata dalla carta del Vicino-Oriente, scacciata dalla storia. Un emblema della nozione di “futuricidio”, concetto che la ricercatrice Stéphanie Latte Abdallah, direttrice di ricerca al CNRS (Centro Nazionale della Ricerca Scientifica francese. N.d T.), usa per descrivere il trattamento inflitto da Israele all’insieme della striscia di Gaza.
«È una violenza rivolta ad una popolazione civile, con la volontà di strapparla alla terra, di trasferirla forzatamente, di distruggere ogni possibilità di proiettarsi nel futuro, spiega la specialista che ha co-diretto, con l’antropologa Véronique Bontemps, il libro Gaza. Une guerre coloniale (Actes Sud, 320 pages, 23 euros). La nozione di futuricida permette di riassumere parecchie forme di distruzione in opera, prosegue Stéphanie Latte-Abdallah, genocidio, ecocidio, culturicidio. Si tratta di un attacco al futuro stesso.”
Il futuricidio comincia nel presente, con la frammentazione, e la distruzione di una data zona e della sua popolazione. Gaza ne è il chiaro esempio, ridotta a una rovina da una campagna di bombardamenti senza precedenti nel XXI secolo. Fin dall’inizio della guerra iniziata dopo la strage del 7 ottobre 2023 commessa da Hamas, più del 90 % delle abitazioni sono state parzialmente o totalmente distrutte secondo l’ONU. L’esercito israeliano ha ucciso 53.000 palestinesi, fra cui una maggioranza di donne e bambini, secondo i conteggi delle autorità sanitarie, stimate affidabili dall’ONU.
La struttura educativa scolastica non esiste più: il 95% delle 564 scuole della striscia di Gaza sono fuori uso, e le sue dodici università sono state distrutte, una mazzata per una popolazione che andava orgogliosa di avere circa il 4% di studenti universitari, una proporzione paragonabile a quella della Francia. Il sistema sanitario sopravvive appena: tra sette e otto ospedali funzionano parzialmente, sui 36 che esistevano nell’enclave. Gaza è stata distrutta, asservita al vicino israeliano, ridotta a mendicare l’aiuto alimentare delle ONG internazionali.
Zone dette «sterili»
È finita l’epoca in cui gli abitanti di Gaza producevano in modo autonomo la maggior parte della frutta e delle verdure che consumavano. L’esercito israeliano ha esteso il suo controllo su tutta la zona periferica della Striscia, in cui si trovavano le coltivazioni. Serre, alberi, tutto quanto poteva ostacolare la visuale o offrire un nascondiglio è stato metodicamente distrutto. L’unica porta d’entrata al resto del mondo, il terminal di Rafah, che dà sul Sinai egiziano, è sprangato da quando i blindati israeliani si sono insediati nella città, nel maggio 2024.
Dopo due mesi di blocco, che hanno portato la Striscia alla fame, lo Stato ebraico intende costruire un sistema di distribuzione di cibo militarizzato, affidato ad una nuova organizzazione, la Gaza Humanitarian Foundation. L’aiuto dovrebbe essere avviato, sotto la scorta di società di sicurezza private americane, fin nei centri di distribuzione, ubicati nel sud dell’enclave palestinese. Il che rischia di costringere le popolazioni rimaste o tornate nel Nord a spostarsi se non vogliono morire di fame, senza garanzia dir ritorno. Un’unica persona per famiglia potrà accedere a quelle zone “sterili” – cioè prive di ogni presenza politica palestinese – si tratti di Hamas o di ogni altra formazione locale. L’entrata verrà autorizzata da un sistema di riconoscimento facciale.
«L’esercito israeliano desidera rinchiudere l’intera popolazione di Gaza in campi a Rafah, dice Mohammed Al-Najjar. La prossima tappa per noi è: bevi, mangi, taci.” Il” futuricidio” a Gaza riduce degli esseri umani alle loro necessità essenziali: dormire, mangiare, lavarsi. “Questo diventa possibile con l’instaurazione di un regime algoritmico. Non si tratta più di rivolgersi ad un soggetto individuale o politico, ma di gestire una supposta pericolosità. L’intenzione è di amministrare un corpo nello spazio”, spiega Stéphanie Latte-Abdallah.
La terra, l’acqua, l’aria diventati sospetti
Controllo dei territori e dei corpi, ma anche degli immaginari. I giovani di 20 anni, a Gaza, hanno conosciuto solo la chiusura e una litania di guerre, sempre più brutali. Non hanno mai visto città senza rovine, famiglie senza “martiri”, le vittime dell’esercito israeliano, cieli senza droni. “Uno degli obiettivi degli israeliani è di inculcare l’idea dell’emigrazione nella mente delle persone”, analizza Amjad Shawa, direttore di PNGO, una rete di ONG palestinesi, raggiunto via telefono nella città di Gaza. “Mi accorgo che tutto ciò che si fa, tutto ciò che stiamo vivendo oggi ci sta facendo odiare il posto dove viviamo, ed è ciò che vogliono gli israeliani”, scriveva il giornalista di Gaza Rami Abou Jamous in un articolo pubblicato nell’ottobre 2024 sul sito d’informazione Orient XXI.
I bombardamenti hanno fatto 50 milioni di macerie, che richiederanno per lo sgombero più di un decennio. Il suolo è cosparso di proiettili non esplosi, un incubo per gli sminatori. Trecentocinquanta mila tonnellate di rifiuti sono sparsi, appestando l’atmosfera e inquinando la falda freatica. La terra, l’acqua e l’aria, il sostrato stesso della vita, sono diventati sospetti.
«Ciò che è distrutto qui, non è soltanto l’umano e la pietra, ma anche gli uccelli, i terreni agricoli, la natura”, afferma Samir Zaqout, vice direttore dell’ONG di difesa dei diritti umani, raggiunto per telefono a Deir Al-Balah. “Anche i cani e i gatti di strada subiscono condizioni di vita intollerabili, la gente non ha più nulla da mangiare e quindi nemmeno essi”, aggiunge M. Zaqout che, come tutti i suoi concittadini e molti esperti e ONG internazionali, qualifica l’offensiva israeliana di “genocidio”.
Nel maggio 2024, sotto le pressioni internazionali e quelle della gerarchia dell’esercito, ingiungendo di presentare il suo piano per “il giorno dopo”, il primo ministro israeliano, Benyamin Netanyahu, ha svelato la sua visione “Gaza 2035”. Un PowerPoint di 9 pagine, generato dall’Intelligenza artificiale, che incitava a trasformare il territorio palestinese in un hub commerciale, con grattacieli a perdita d’occhio, campi verdeggianti e rete di trasporti rapidi. Dietro l’immaginario tipico di Dubai, eco lontana del sogno di Shimon Peres, negli anni 1990, di fare di Gaza una “Singapore del Medio Oriente”, si ritrova un vecchio progetto israeliano: diluire i palestinesi e la loro causa nel libero-scambio.
Resistere restando
Il progetto di «Riviera», presentato da Donald Trump in febbraio, spinge questa logica al parossismo poiché presuppone, apertamente, di scacciare gli abitanti di Gaza dalla loro terra. Dopo che queste dichiarazioni hanno suscitato una levata di scudi, il presidente americano ha lasciato nel vago le sue esatte intenzioni. Ma il governo israeliano, esso, rimane fermamente legato a questo piano. Il 21 maggio, Benyamin Netanyahu lo ha ufficialmente aggiunto ai suoi obiettivi di guerra, oltre al ritorno di tutti gli ostaggi, all’annientamento di Hamas e alla demilitarizzazione completa del territorio costiero. E l’82% degli ebrei israeliani si augura una pulizia etnica dell’enclave, secondo un sondaggio recentemente pubblicato dal quotidiano Haaretz.
Con regolare frequenza appaiono nei media israeliani nomi di Paesi suscettibili di accogliere gli espulsi: l’Egitto, la Giordania, il Sudan, il Somaliland… Poco importa la realtà di tali progetti: una delle componenti del “futuricidio” sta nel fabbricare incertezza. Impossibile proiettarsi in un avvenire a breve o medio termine quando si teme di essere sfollati il giorno dopo. In questa prospettiva, la guerra diventa un processo di spossesso esistenziale. “Il futuricidio, è un intento, sottolinea Stéphane Latte Abdallah. Non uno stato realizzato, ma una dinamica. La posta in gioco, per i palestinesi, è di proiettarsi in altri possibili, di non sottomettersi a questa “futurità” coloniale imposta”.
Di fatto, al loro modo tenace, nella tradizione del somoud (perseveranza) palestinese, gli abitanti di Gaza resistono. Quando l’esercito israeliano ha ordinato alla popolazione di spostarsi verso il sud dell’enclave nell’ottobre 2023 più di un milione di palestinesi sono fuggiti. Ma quando il cessate il fuoco è entrato in vigore, circa 400 000 persone sono tornate nel Nord. Senza curarsi del fatto che le loro residenze fossero state ridotte a rovine, che le condizioni di vita vi fossero più precarie e più pericolose che nel Sud. Si trattava di ricomporre una società, di tessere di nuovo la possibilità di un avvenire.
Samir Zaqout non è tornato nella città di Gaza dove si trova la sua casa, ancora in piedi, ma in uno stato insalubre. Non pensa tuttavia di fuggire dal territorio costiero. Privo ormai di quasi tutto, egli resiste restando. “Il mio futuro è nella Striscia di Gaza, afferma al telefono. Mai ho pensato di lasciarla. Molti qui la pensano come me.”
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