I ribelli ugandesi dell’Adf nella galassia dello Stato Islamico
25 Giugno 2023 – 21:57

Africa, 25 giugno 2023
di Angelo Ferrari
Il terreno di battaglia privilegiato dello Stato Islamico è diventato l’Africa, dopo la perdita del suo califfato tra Iraq e Siria. L’appoggio dell’Isis a svariate formazioni jihadiste africane è orami …

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Quale futuro per la Palestina – Intervento di Ilan Pappe’

a cura di in data 20 Aprile 2024 – 10:39Nessun commento

Ginevra, 20 aprile 2024
Tavola rotonda organizzata da «Cri des Victimes» e «Coordination des organisations islamiques de Suisse» in collaborazione con «Investig’action»
Intervento di Ilan Pappe’

QUALE FUTURO PER LA PALESTINA
Il testo è stato tradotto da Hélène Colombani Giaufret. La traduzione ha mantenuto il testo con le sue frasi a volte sospese, la sua sintassi, le sue ripetizioni, come è normale nell’oralità.

Grazie di avermi invitato, è un grande onore essere con voi. Mi dispiace non esserlo fisicamente ma sono felice di potere comunicare con voi.
L’argomento che mi è stato chiesto di trattare riguarda la possibilità di pace durante questo periodo molto buio in cui si è trovata la storia della Palestina. Non è un argomento facile poiché i nostri sforzi, le nostre emozioni, i nostri sentimenti sono dettati dalla situazione e devono essere orientati a fermare il genocidio in corso a Gaza che è la cosa più importante.
Il livello delle operazioni israeliane non è più quello degli ultimi sei mesi. Proseguono anche gli omicidi in Cisgiordania, continua la fame e la mancanza di infrastrutture di base per ospedali, scuole e famiglie. Purtroppo siamo di fronte a un immenso attacco su Rafah.
Si tratta di fare quanto più possibile per esercitare pressioni sui nostri governi, le nostre organizzazioni internazionali per porre fine a questa operazione, e ciò in modo pressante e urgente, e ogni giorno è un giorno di troppo.
Ma è anche importante parlare, in un certo modo, del giorno dopo e io penso che ci siano due giorni dopo. C’è un giorno dopo, in un futuro prossimo guardando a fra un anno o due e temo che per quanto ci è dato di vedere attualmente ci sia lasciata poca speranza. E anche se Israele dichiarasse la fine delle operazioni iniziate sei mesi fa e poiché non sono riusciti a sconfiggere Hamas come volevano o come dicevano di sradicare Hamas da Israele e dato che la comunità internazionale non cambierà radicalmente la propria posizione nei confronti di Israele e ignorando in che modo evolverà l’attuale conflitto tra Hezbollah e Israele, con tutti questi elementi sembra che i due prossimi anni saranno identici all’attuale e che, purtroppo, saranno altrettanto tragici. È una previsione molto pessimistica ma temo che sia realistica.
Per il giorno dopo, comunque a breve termine, Israele manterrà il suo potere sulla striscia di Gaza, ma è altrettanto difficile prevedere che cosa faranno a Gaza visto che nel governo coesistono due scuole di pensiero. Uno è quella delle tendenze più messianiche e degli elementi più estremisti del governo, provenienti dalle colonie ebraiche di Cisgiordania, i quali vogliono che tutto si concluda con il ritorno dei coloni, come dicono, nella striscia e, se possibile, anche fuori, in Egitto oppure ovunque nel mondo dove ci saranno collaborazioni per farlo.
Il campo più pragmatico nel governo ha una visione un po’ differente del giorno dopo. Desidererebbe restaurare un’autorità palestinese, o qualcosa di simile, nella striscia di Gaza per sostituire Hamas e annettere direttamente certe parti della striscia di Gaza fra cui le zone vicine alle colonie attaccate il 7 ottobre per creare una distanza fra queste colonie e la striscia di Gaza stessa. Spera che tale operazione sia sostenuta diplomaticamente e finanziariamente non solo dagli Stati Uniti e dall’Occidente ma anche da paesi arabi come l’Arabia Saudita, gli Emirati e altri paesi del Golfo.
Per il primo progetto che gli ebrei più messianici e fanatici vogliono imporre a Gaza, non penso che funzionerà perché continuerà la resistenza palestinese e, anche se riescono per qualche tempo, si può sperare che si acceleri il processo di cui adesso vi parlerò, che si svilupperà più avanti nel tempo a causa dei cambiamenti fondamentali cui assistiamo nella comunità internazionale di fronte alla politica israeliana sul terreno.
Per quanto riguarda il secondo progetto che mira a re-insediare l’Autorità Palestinese in una parte della Striscia di Gaza e annetterne altri parti, temo che abbiano la possibilità di farlo. Ignoro se dei membri dell’Autorità Palestinese saranno d’accordo o no, non è ancora chiaro. Ma non è una buona soluzione, né morale né equa. Inoltre non è una soluzione valida sul lungo periodo, ma è un progetto che la comunità internazionale e in particolare l’Occidente potrebbe sostenere fra un anno o due.
Ma se il nostro sguardo va più in là del prossimo anno o di quello successivo, cosa molto difficile se vivete a Gaza o se siete rifugiati da Gaza o se vivete in Cisgiordania, ma è un lusso che ci possiamo permettere, noi che non siamo sottoposti a questa oppressione. Abbiamo la capacità e lo spazio per guardare un po’ più in là dell’anno prossimo o di quello successivo. E questa prospettiva è a mio parere ottimistica dal punto di vista dei palestinesi e del loro desiderio di liberazione e d’indipendenza, della fine dell’occupazione e, Dio ce ne scampi, di un nuovo capitolo di genocidio.
Nel tempo lungo potete vedere i processi che si stanno sviluppando in seno a Israele, nella comunità palestinese, nella regione e nel mondo. Se evolveranno contemporaneamente nella direzione cui penso, possono creare una realtà diversa nella terra di Palestina.
Lasciatemi descrivere alcuni processi che mi rendono più ottimista sul lungo periodo visto che temo che non avremo buone notizie prima di uno o due anni.
Il primo processo in corso è quello che si stava sviluppando in Israele già prima del 7 ottobre ed è collegato con gli stessi palestinesi. Ed è collegato all’incapacità della società ebraica di trovare una base comune per la definizione di che significhi essere una comunità nazionale ebraica o quanto vuol dire essere parte del nazionalismo ebraico nel ventunesimo secolo. La differenza di punti di vista tra i più religiosi, i più messianici, i più tradizionalisti in Israele e la prospettiva più secolarizzata, il più delle volte di origine europea, queste prospettive sono talmente differenti che l’unica cosa che li riunisce, che crea come un cemento, è il pericolo esterno e la credenza in un nemico comune che li costringe a rimanere insieme per non essere sterminati, distrutti o sconfitti. Ma ciò non basta per durare sul lungo periodo nel mondo moderno. Ciò che sappiamo è che questi due campi hanno un concetto della vita in uno Stato ebraico talmente differente che per realizzare ciò che dovrebbe essere uno Stato ebraico devono imporlo con la forza al campo avverso, il che generava conflitti durissimi già prima del 7 ottobre ma che si riaccendono ora a causa degli atti d’ Israele; e la crisi con tutte le tensioni interne emerge di nuovo. Questa specie di guerra civile fredda farà implodere la società ebraica.
Un altro processo, che diventa chiaro dal 7 ottobre, ma era già visibile nel 2000 quando Hezbollah ha costretto Israele a ritirarsi dal Libano, è che l’esercito israeliano non è invincibile e non è in grado di difendere i propri cittadini. Sul lungo termine è un paese che sopravvive grazie ai suoi successi militari, ed è questa la prospettiva che sia vera o no: che Israele uscirà sempre vincitore, cosa di cui dubito. Ma anche se fosse vera, non è una cosa che potete dire alla nostra popolazione molto a lungo. La gente nel ventunesimo secolo non vuole dover pensare che i prossimi 50 anni saranno fatti di violenza e di guerra.
Ciò creerà un’emigrazione per coloro che non vogliono più vivere così, una mancanza di fede nella democrazia, nella politica e creerà il sentimento di diventare sempre più uno Stato in un esercito invece di avere un esercito nel proprio Stato.
Il terzo processo è l’incapacità del governo durante questo periodo di crisi, come è stato chiarissimo negli ultimi sei mesi, secondo le previsioni degli stessi israeliani si andrà replicando altre e altre volte, ed è che in questo periodo di crisi il governo o lo Stato come fornitore di servizi non funziona più. I soli gruppi che possono aiutare gli israeliani a vivere nel sud d’Israele o nel nord, diventati rifugiati nel proprio paese, che sono stati efficaci appartengono alla società civile. Di nuovo si possono sospendere questi comportamenti per un breve periodo ma non a lungo.
Un altro processo riguarda la vita economica in una situazione in cui si succedono i conflitti, il che richiede enormi somme di denaro per la difesa e l’aggressione in modo duraturo. Ne fa le spese la capacità di fornire servizi alla società da una parte, come abbiamo visto. Dall’altra dissuade gli investitori esterni ad investire in uno Stato che produce incessantemente insicurezza in campo finanziario. È possibile constatarlo, per esempio, con la reticenza delle compagnie aeree ad assicurare i collegamenti con Israele.
Un altro processo importante è il crescente isolamento a livello mondiale, ivi compreso negli Stati Uniti. Il quotidiano israeliano Haaretz ha fatto due interessantissime inchieste, consecutive. La prima riguarda il boicottaggio a livello accademico e l’altra il boicottaggio culturale nei confronti di Israele. Secondo queste inchieste di Haaretz sulle campagne di boicottaggio, il livello è tale che viene mandato alle élite accademiche e culturali israeliane un potente messaggio. Se si prosegue sulla stessa strada non saranno più i benvenuti in nessun paese del mondo, alla stregua di altri paesi-carogna. Non si tratta di sanzioni né di azioni politiche come quelle che hanno abbattuto il regime di apartheid nel Sudafrica ma sono sviluppi molto importanti paragonati agli eventi che accaddero 15 o 20 anni fa quando ebbero inizio.
Questo processo può essere paragonato a un altro che riguarda i cambiamenti nella comunità ebraica per quanto riguarda l’atteggiamento nel confronto del sionismo. La giovane generazione giudaica, ivi compresa quella degli Stati Uniti, si considera sempre meno sionista. Per la giovane generazione negli Stati Uniti non è solo che non sono più interessati a partecipare a una lobby per sostenere Israele ma si impegnano attivamente nei movimenti di solidarietà con i palestinesi. Molti giovani, ebrei e non, fanno marce negli Stati Uniti e in futuro saranno forse in grado di influire sugli attori della politica, dell’economia, nell’Università ed è un processo importante.
Infine aggiungo questo, riguardo alla società palestinese, una cosa non facile da scorgere, ma se considerate i segnali attuali a favore dei palestinesi, vedrete che, ad essere onesti, non c’è nessuna promessa per l’avvenire. C’è una disunione politica, una frammentazione. Non la si può spiegare ma non si può negare la sua oggettiva esistenza. Ma non possiamo dimenticare a che punto la società palestinese è giovane, è una delle più giovani del mondo. I giovani palestinesi condividono la stessa visione che è meno dettata da appartenenza a organizzazioni o partiti, essi hanno una visione più chiara degli obiettivi di liberazione e di ciò che dovrebbe essere il paese dopo la sua liberazione. Si tratta di un’energia forte ma non ancora organizzata. Non è ancora sufficiente ad influire sulla politica palestinese, ma si svilupperà nell’avvenire e avrà un impatto importante per affermare in modo chiaro e univoco ciò che vogliono i palestinesi e in che modo desiderano arrivarci e quale è la loro visione dell’avvenire. Penso sia quello che accadrà non subito ma più in là.
Se considero nel complesso tutti questi processi, vedo l’inizio della fine del progetto sionista. Non sono un profeta e ignoro quando ciò accadrà e in che modo accadrà ma sono quasi certo che accadrà. La domanda è: che cosa succederà quando capiterà questo collasso, se capita? Il problema è che si verrà a creare un vuoto e allora il movimento palestinese sarà pronto a colmare, in quel momento, questo vuoto? È importantissimo che questo processo negativo diventi un processo positivo.
L’altra cosa cui occorre prestare attenzione è che questi processi di crollo, di disintegrazione o di indebolimento possono essere lunghissimi e pericolosissimi poiché il regime che rischia di essere disintegrato utilizzerà ogni mezzo per sopravvivere. Può essere un periodo pericolosissimo ma carico di promesse.
Esistono altre iniziative che non avremo il tempo di considerare ma le elencherò soltanto in modo telegrafico: presto gli Stati Uniti non saranno più una potenza dominante, perlomeno nel Medio Oriente e diventeranno una potenza fra le altre. Penso che la società globale avrà maggiore influenza sui governi ma la cosa più importante sono gli elementi che ho menzionato.
Terminerò così: non si tratta di qualcosa alla quale fare da spettatori nell’attesa che accada. Per molti dei processi di cui ho parlato noi possiamo essere parte di quei processi, noi non siamo spettatori innocenti e noi dobbiamo trovare una via per partecipare e fare in modo che quei processi siano positivi e costruttivi perché non diventino distruttivi. La storia della decolonizzazione, come in Africa, ci insegna che questa non costituisce sempre una buona notizia o una realtà migliore per le popolazioni, ed è per questo che dobbiamo partecipare, in qualunque luogo avvenga. Non bisogna disertare le nostre speranze accumulate e i nostri sforzi rimarranno necessari ancora a lungo nonostante la terribile situazione a Gaza e in Cisgiordania. Malgrado ciò dobbiamo conservare la speranza che il processo di liberazione e decolonizzazione si avveri noi ancora vivi o nella vita dei nostri figli.

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