Il Sahel, la crisi umanitaria che il mondo ignora
Città della Spezia, 19 marzo 2023
di Giorgio Pagano
Secondo l’autorevole report annuale del Consiglio norvegese per i rifugiati (Nrc) le dieci crisi di profughi più dimenticate al mondo sono – per la prima volta – tutte in Africa. I Paesi sono: Repubblica Democratica del Congo, Burkina Faso, Camerun, Sud Sudan, Ciad, Mali, Sudan, Nigeria, Burundi ed Etiopia. Sette fanno parte del Sahel, la fascia che taglia in due l’Africa e va dritta dal Senegal all’Eritrea.
Oggi il Sahel sta vivendo una situazione estremamente critica non solo dal punto di vista della sicurezza – per la penetrazione dei terroristi jihadisti – ma anche e soprattutto dal punto di vista umanitario. Siccità e precipitazioni estreme sono all’origine della crisi alimentare, ma anche la guerra in Ucraina ha influenzato le dinamiche nella regione, provocando una scarsità di risorse per quanto riguarda olio, grano, fertilizzanti. Secondo i dati forniti dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA), circa 18 milioni di persone nel Sahel stanno affrontando una grave insicurezza alimentare, la più drammatica crisi umanitaria dal 2014. Per farvi fronte l’ONU ha sbloccato 30 milioni di dollari dal Fondo Centrale di risposta alle emergenze (CERF) per Burkina Faso, Ciad, Mali e Niger. Una prima risposta all’emergenza per evitare un disastro, ma certamente non “la” risposta. La bomba ad orologeria del Sahel potrebbe esplodere.
LA CRISI CLIMATICA, LE TENSIONI SOCIALI, IL TERRORISMO JIHADISTA
La situazione è molto grave a causa di un mix micidiale, a cui ho accennato: l’area è al contempo del tutto insicura e instabile dal punto di vista politico e del tutto vulnerabile dal punto di vista climatico e ambientale.
Il Sahel fu colonizzato dai francesi. La scelta di allora per l’agricoltura intensiva ha scardinato gli equilibri locali e ha impoverito un suolo già di per sé fragile. La siccità provocata anche dal cambiamento climatico sta facendo avanzare il Sahara, mentre il lago Ciad si sta riducendo a una palude infestata. Ultimamente preoccupa anche il fenomeno dei temporali estremi e delle devastanti inondazioni. Il tutto va a scapito di contadini, allevatori nomadi, pescatori, ed è causa di conflitti tra loro.
In questo contesto di progressivo deterioramento degli ecosistemi e di impoverimento si sono determinate pressioni sociali sulle risorse disponibili e scontri sociali, etnici o clanici, in cui si sono insinuate le organizzazioni terroristiche jihadiste. La ribellione dei pastori nomadi Tuareg dei primi anni Novanta in Mali è un esempio paradigmatico di un conflitto di questo tipo, e del ruolo dell’Islam – nella sua versione salafita – come ideologia che fa leva sul risentimento di tante popolazioni povere. L’analista Camillo Casola chiama questo processo “africanizzazione del jihadismo saheliano”, uno jihadismo capace, in Mali, di dar vita a un complesso sistema di assistenzialismo, una sorta di “welfare jihadista”, e comunque di strumentalizzare la collera, “perché è della disperazione, soprattutto dei più giovani – una generazione immensa, generalmente istruita che però fa i conti con una disoccupazione dilagante – che si ciba il neojihadismo saheliano”, spiegano l’antropologo Marco Aime e il giornalista Andrea de Georgio.
Mentre in chiave antijihadista si muovono, piuttosto che Stati debolissimi e incapaci di stabilire l’ordine e proteggere la popolazione, le milizie di ex militari e di cittadini arruolati su base etnica, segretamente foraggiate dagli Stati e guidate da nuovi, sempre più potenti, signori della guerra. Traffici di ogni tipo e contrabbando, droga e violenza dilagano. Il quadro è drammatico, scrivono Aime e de Georgio:
“Eserciti di ragazzini appena diciottenni sottopagati, mal equipaggiati e minimamente addestrati, mandati al macello contro altri giovani aspiranti martiri decisamente meglio preparati, indottrinati, armati, spesso anche dopati (chetamina, benzodiazepine, Captagon ecc.). Carne da macello che in tutto il Sahel viene quotidianamente sacrificata sull’altare degli stratificati interessi economici e geopolitici nascosti dietro le ugualmente fallaci insegne del ‘jihadismo globale’ e della ‘lotta al terrorismo’”.
NON SERVIRA’ LA WAGNER
Il nuovo Stato islamico è dunque in Africa.
La crisi del Sahel è anche crisi dell’impero coloniale francese e dei suoi eredi. La Francia è intervenuta nel 2013 con un’operazione militare per stabilizzare l’area. Nel 2020 è stata creata anche una nuova forza europea, di cui L’Italia fa parte. Ma le operazioni hanno causato la morte di centinaia di soldati francesi e di civili senza minimamente risolvere i problemi, anzi. L’anno scorso Emmanuel Macron ne ha preso atto, annunciando l’addio al Sahel. Anche perché, in tutti questi anni, era cresciuta l’opposizione delle popolazioni locali alla presenza dei militari francesi.
Macron non rinuncia al più ampio coinvolgimento francese, ma a favore di una coalizione internazionale, europea in primo luogo. Ma sia la Francia che la comunità internazionale sono in un’impasse: la soluzione non si è trovata. È in questo varco che si è inserita la Russia, offrendo il suo supporto ai governi del Mali e del Burkina Faso contro i terroristi: i suoi obbiettivi sono l’accesso alle risorse naturali della regione e l’espansione del suo mercato delle armi. Per ora, anche grazie ai mercenari della Wagner, Mosca ha un ruolo decisivo nel Sahel. Un pezzo di impero francese è dunque caduto nelle mani della Russia.
È crollato il modello che teneva insieme neocolonialismo francese ed ex élite coloniali, la cui incapacità di governo ha favorito il sorgere dei gruppi jihadisti. Il segreto della loro longevità risiede innanzitutto in questa incapacità. Pensiamo al Mali: lo Stato semplicemente non è presente in ampie aree del Paese, ha delegato alle forze armate internazionali il ruolo istituzionale. Come non capire il risentimento delle popolazioni locali? Il dramma è che, prive di altri punti di riferimento, hanno scelto l’ideologia salafita.
Ma nemmeno i russi e la Wagner risolveranno il problema. Né ogni altro intervento militare. La vera questione è adottare metodi che differenzino tra i terroristi jihadisti e i civili che li ospitano e che li considerano figure politiche e sociali di riferimento. Non potrà certo essere la Wagner a farlo. L’intervento puramente militare, semmai, non potrà che aumentare l’identificazione. Non stabilizzerà affatto.
L’EUROPA NON HA ANCORA UNA POLITICA DIVERSA DA QUELLA COLONIALE
L’insicurezza del Sahel è il sintomo di problematiche molto più profonde, per le quali non funziona il ricorso allo strumento solamente militare: questa è la strada che conduce agli stessi errori commessi in Afghanistan. Il terrorismo non si sconfigge con i droni ma con una visione di lungo termine tesa a una ricostruzione politica, sociale ed economica che ha tempi, costi, modalità molto più complessi e che richiede una unità internazionale molto difficile da raggiungere oggi. Quanto meno occorre una politica europea: una strategia politica euro-africana.
Dobbiamo riflettere, a partire dal riconoscimento che il fallimento della politica francese in Africa coinvolge tutti gli europei e tutti gli occidentali. Ha scritto Mario Giro, della Comunità di Sant’Egidio:
“Si tratta della cartina di tornasole del fallimento delle politiche di aiuto allo sviluppo e soprattutto dell’aggressività di quelle migratorie messe in atto dall’Europa e anche dal nostro Paese nell’ultimo decennio. Ciò che fa infuriare molti giovani africani è l’indurimento complessivo dell’Europa nei loro confronti: ormai non è quasi più possibile ottenere un visto, non si può venire a curarsi, per non parlare dei visti di lavoro. Per i giovani africani l’unica Europa possibile è quella del deserto, dei barconi e alla fine del lavoro clandestino, schiavo e al nero. Cresce il rancore di giovani che hanno studiato (più dei loro genitori) sui libri di scuola europei ma che vengono quotidianamente umiliati davanti alle ambasciate europee (mentre per andare a Pechino non ci vuole visto). Sono ragazze e ragazzi a cui è negato il diritto di sperare in una situazione migliore e che sono costretti a sbrigarsela illegalmente e da soli. Il fatto di costringerli a tale solitudine o ad affidarsi a mani ostili come quelle dei moderni trafficanti di schiavi libici, fa aumentare l’astio nei nostri confronti. Ma c’è di più: i giovani africani non sopportano che l’Europa sostenga regimi autoritari e corrotti continuando a foraggiarli. La Francia ha certamente le sue responsabilità in questo ma anche tutta l’Ue, visto che rappresenta il più grande donatore mondiale in Africa. Per i giovani africani non è più accettabile che tutti gli aiuti passino attraverso i loro governi: cioè che vengano sistematicamente dirottati ad altri fini”.
La vera questione che ci coinvolge è questa: non ci siamo dotati di una politica europea comune in sostituzione di quella delle ex potenze coloniali. Un partenariato strategico paritario e reciproco, che si affranchi dal rapporto donatore-beneficiario, occidentale buono-buon selvaggio. La pandemia poteva essere un’occasione: ma non siamo stati generosi con i vaccini. Anche le migrazioni potevano – possono ancora – essere un’occasione: ma siamo andati in Niger a creare la frontiera meridionale della caserma Europa. La tomba, in entrambi i casi, della cooperazione internazionale. Eppure una nuova relazione tra Africa ed Europa conviene a loro ma soprattutto a noi. L’Africa è giovane, è vitale, è il nostro sud così come noi siamo il loro nord: il futuro non può che essere comune.
O saremo capaci di fare questa svolta, oppure non potremo che accogliere gli sventurati che partiranno, immaginando un’accoglienza legale e organizzata. L’alternativa, insopportabile, è aggiungere altre tragedie a quella di Cutro e a quelle precedenti. Pier Paolo Pasolini sapeva già che cosa sarebbe successo. Nelle parole con cui concludeva il film “Appunti per un’Orestiade Africana” auspicò per gli africani “il potere di decidere del loro destino”. Nella poesia “Profezia” vide giungere sulle nostre coste (e proprio a Crotone!) un popolo dolente: “Sbarcheranno a Crotone o a Palmi,/a milioni, vestiti di stracci asiatici, e di camicie americane./Subito i Calabresi diranno,/come da malandrini a malandrini:/” Ecco i vecchi fratelli,/ coi figli e il pane e formaggio!”. Dobbiamo aiutare, a restare o a migrare, i “vecchi fratelli”, come Pasolini definiva i popoli del Mediterraneo, diversi ma simili nella semplice umanità.
Post scriptum
Per i temi contenuti in questo articolo rimando al più recente articolo di questa rubrica – “La nostra Africa”, 29 gennaio 2023 –, ai miei libri “Sao Tomé e Principe-Diario do centro do mundo” (2017) e “Africa e Covid-19. Storie da un continente in bilico” (2020) e ai siti www.associazioneculturalemediterraneo.com e www.funzionarisenzafrontiere.org
La foto in alto è stata scattata a Sao Tomè, isola di Principe, roça di Sundy, nel 2015; la foto in basso a Sao Tomè, roça di Boa Entrada, nel 2016. Le roças sono strutture agricole di epoca coloniale oggi abbandonate, in molti casi utilizzate come abitazioni dai saotomensi.
Buon San Giuseppe a tutte e a tutti
Giorgio Pagano
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