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Dopo 75 anni vissuti pericolosamente nel Kashmir la pace resta impossibile

a cura di in data 3 Gennaio 2022 – 22:21Nessun commento

Il conflitto nel Kashmir è così radicato che è facile anche prevedere le date in cui rischia di inasprirsi
CARTOGRAFIA: LUCA MAZZALI FASEDUESTUDIO APPEARS SRL

Domani, 03 gennaio 2022, di Riccardo Orizio (Nairobi)

I conflitti del 2022

La Torre dell’orologio di Srinagar, capitale del territorio indiano del Jammu e Kashmir, svetta al centro di una piazza chiamata Lal Chowk. Piazza famosa perché nel 1948, alla fine della prima guerra indo-pakistana, Jawaharlal Nehru (padre dell’India indipendente e post-coloniale nonché padre di Indira Gandhi) vi si presentò di fronte a una folla grande ma scettica, accompagnato dal neo premier regionale sceicco Abdullah, molto amato dai kashmirini. Lì Nehru brandì una bandiera tricolore sconosciuta ai più. Dispiegandola promise alla folla prosperità e libertà, inclusa quella di scegliere il proprio futuro politico. Cioè un futuro sotto quel tricolore color zafferano-bianco-verde che simboleggia la coesistenza pacifica tra le religioni indiane incluso l’islam, in alternativa a quella tutta verde e solo islamica che sventolava a pochi chilometri di distanza, oltre il nuovo confine con il Pakistan. Un teatrino ben recitato, che nascondeva intenzioni ben diverse. Cinque anni dopo lo sceicco era già in prigione per cospirazione anti-indiana e il Nehru definiva il referendum “purtroppo ancora poco praticabile”.

La Torre dell’orologio
Oggi su quella stessa piazza e intorno alla Torre dell’orologio, costruita nel 1980 da un’India che non mantenne mai la promessa del Nehru, si sta giocando una guerra di simboli, ricorrenze e richiami storici per la conquista dell’anima del Kashmir. Il Big ben kashmirino è ormai l’ombelico di questo conflitto, perché quello che era un monumento neutrale al progresso e alla modernità da quando è stato tutto illuminato con i colori del Tiranga, la bandiera indiana, è diventato un’abbagliante e controversa arma di propaganda. Mentre nella regione si moltiplicano gli attentati dei gruppi fondamentalisti islamici appoggiati dal Pakistan e il sangue macchia ogni tentativo di dialogo, il governo di Delhi risponde ordinando a scuole, stadi, uffici e amministrazioni comunali di fare a gara a chi innalza il vessillo più alto e più grande, magari con inni e parate militari. E ad ogni alzabandiera diventa sempre più chiaro che, nonostante sia uno dei più longevi del panorama internazionale, il conflitto del Kashmir è sempre più lontano dalla sua conclusione.

I giorni della tensione
Anzi, è persino facile prevederne le date dell’accelerazione: il 26 gennaio e il 15 agosto 2022. La prima è quello che in India chiamano il R-Day, l’anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione. La seconda è il giorno dell’indipendenza (e della separazione dal Pakistan). In entrambe le date, in Kashmir si prevedono scontri, attentati, marce e proclami. La suscettibilità è ai livelli massimi. I giornali di Srinagar scrivono indignati che da Dehli c’è persino l’ordine agli studenti di cantare l’inno nazionale, cosa che in un contesto diverso non sembrerebbe un crimine, ma che nel Kashmir con i nervi a fior di pelle di oggi sembra una provocazione intollerabile. In realtà gli studenti del Kashmir sono quelli che stanno rinforzando le schiere dei terroristi del Jaish-e-Mohammed, il gruppo che attacca convogli militari indiani con crescente regolarità e che nel 2011 compì gli attentati di Mumbai. L’inno nazionale che questi studenti vogliono cantare non è il “Jana Gana Mana” composto dal poeta e cantore della grandezza hindu Rabindranath Tagore, ma quello dell’estremismo islamico.

Un conflitto trilaterale
A garantire che il Kashmir sia un conflitto sempre più caldo sono un paio di fattori esterni che hanno segnato lo scorso biennio. Il primo è la realizzazione che il Kashmir non è più un conflitto bilaterale, ma trilaterale. Molti si erano scordati che la regione chiamata Kashmir non è spartita tra due potenze nucleari reciprocamente ostili, India e Pakistan, ma da tre: la terza è nientemeno che la Cina, che occupa una fetta dell’ex “stato principesco” governato fino al 1947 dal maharaja Hari Singh. Come si capisce dalla mappa qui sopra, la Cina è un vicino di casa impossibile da ignorare, anche perché negli ultimi tempi ha militarizzato sempre di più la propria fetta di Kashmir per tenere alla larga i gruppi islamici che dal Pakistan si infiltrano nella Repubblica popolare. E tutti ormai capiscono che la Cina sta negoziando l’appoggio economico a Pakistan e Afghanistan in cambio della loro rinuncia a fomentare gli islamisti nel Kashmir cinese.

Il nazionalismo hindu
Il secondo fattore è quello del crescente nazionalismo hindu del partito al governo, il Bjp. Due anni fa, il primo ministro indiano Narendra Modi ha abrogato gli articoli 370 e 35A della Costituzione indiana: erano quelli che garantivano una speciale autonomia al musulmano Jammu e Kashmir. Questa speciale autonomia era l’unica cosa che permetteva agli indipendentisti moderati di digerire il mancato referendum e la presenza militare Indiana e di rifiutare le sirene islamiche del Pakistan. Retrocesso da stato a semplice territorio, aboliti gli articoli della Costituzione, oggi in Kashmir per la prima volta possono insediarsi cittadini e società indiane non residenti, che possono anche comprarvi proprietà immobiliari o prenderne la residenza, votare e diventare dipendenti pubblici, agevolando un’immigrazione interna che sta diluendo la composizione etnica. Questo spiega, tra l’altro, perché le attuali celebrazioni della Costituzione sono una data così difficile per il Kashmir, che ormai in quella costituzione spogliata degli articoli sul Kashmir vede solo uno strumento di oppressione. E questo spiega anche perché negli ultimi mesi si è passati dagli attentati terroristici contro l’imponente apparato militare indiano a quelli contro civili, come insegnati e medici e negozianti, colpevoli semplicemente di essere indù, sikh o immigrati recenti.

Il male minore
Difficile capire che sbocco possa avere questa crisi. Se fosse stato per il vecchio maharaja, monarca di religione hindu e di ampie vedute moderne e laiche, non sarebbe dovuta andare così. Inizialmente Singh aveva deciso di restare indipendente e di non accettare le offerte dell’India e del Pakistan di diventare parte di una delle due nazioni rivali. Ma poi era finito vittima di un ricatto militare, causato da una artificiosa rivolta tribale orchestrata da Lord Mountbatten – parente stretto della regina Elisabetta – e dal suo amico Nehru. Così nel 1947, in cambio di un sostegno militare anti-ribelli, aveva accettato a malincuore di diventare uno stato della federazione indiana, con un accordo che ne garantiva ampie autonomie, sacrificando il proprio trono per quello che credeva sarebbe stato il male minore.

La Palestina sull’Himalaya
Il problema per il Bjp è che in Kashmir storia e geografia sono fattori che è pericoloso sottostimare. Prendiamo la figura del maharaja: nessuno oggi pensa a una restaurazione monarchica, ma suo figlio ed erede Karan Singh, famoso anche per essere nato all’hotel Martinez a Cannes dove il padre aveva affittato tre suite per alcuni mesi, è oggi uno stimato statista, ambasciatore e potenziale candidato alle elezioni presidenziali indiane che avverranno proprio nel 2022. I figli e nipoti dello sceicco Abdullah continuano a dominare la politica locale sino ad oggi. Le dinastie restano forti. Quanto alla geografia, il nuovo Afghanistan talebano confina con la Cina attraverso il leggendario Corridoio di Wakhan. Questa valle lunga 300 chilometri ma larga solo 15, visitata da Marco Polo ma istituzionalizzata da inglesi e russi nel 1895 come un cuscinetto tra due imperi, è in cima al Kashmir ed è una rotta che da secoli unisce (o divide, a seconda delle interpretazioni) Asia centrale, Asia occidentale e Asia orientale. Così il lontano Kashmir si trova al centro di partite più complesse che non sono più ormai legate al vecchio concetto di “dispute territoriali”. Il destino di questa regione definite dall’Ispi “la Palestina sull’Himalaya” è legata alle grandi fratture di crisi del mondo contemporaneo; fondamentalismo islamico, ascesa della Cina, arma etnica come arma militare, identità e territorio. La Torre dell’orologio segna le ore, ma non dà più tempo alle trattative. Dopo 75 anni la storia del Kashmir è ancora tutta da scrivere.

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