La strategia del Pentagono non porterà alla vittoria dell’Ucraina
Domani, 4 agosto 2022,
di Mario Giro (politologo)
Conflitto a oltranza
Sul numero di luglio di Foreign Affairs spicca un articolo di Barry R. Posen, professore di scienze politiche al Mit (Massachusetts Institute of Technology), titolato “Ukraine’s implausible theories of victorY’, ovvero Le inverosimili teorie di vittoria dell’Ucraina. Nel lungo saggio Posen passa in rivista le ragioni di chi sostiene come probabile o possibile la vittoria ucraina nella guerra in corso, sia con l’affermazione sul campo di battaglia che mediante un regime change a Mosca. «Il più probabile risultato della strategia attuale», scrive Posen, «non è il trionfo ucraino ma una lunga, sanguinosa e, in definitiva, incerta guerra».
Fantasie di vittoria
Secondo l’autorevole professore la vittoria è una «fantasia»: il solo approccio realistico resta la ricerca di un compromesso diplomatico. Posen critica le previsioni degli specialisti occidentali secondo i quali l’esercito russo avrebbe dovuto essere già collassato mentre invece avanza, seppur lentamente, nel Donbass. Anche la tanto annunciata controffensiva ucraina manca di credibilità (d’altronde le controffensive non si annunciano, si fanno). Nonostante ciò la teoria che Posen critica di più è quella del regime change. l’idea che la pressione militare combinata con le sanzioni possa spingere la Russia a cambiare politica sulla guerra cacciando l’attuale leadership. ln tale equazione, secondo l’autore, si dimentica che Vladimir Putin è un «veterano membro professionale dell’intelligence russa» che ne sa molto di complotti e cospirazioni. Inoltre le sanzioni non porteranno alcun effetto e saranno un fallimento come già accaduto altrove, ad esempio con l’Iran. È noto infatti che le sanzioni rafforzano i regimi che le subiscono invece di indebolirli. Anche le perdite umane non saranno sufficienti a convincere la Russia a fermarsi, come non furono decisive per gli Stati Uniti in Vietnam, Afghanistan e Iraq o per l’Unione sovietica in Afghanistan. Casomai, sostiene Posen, le alte perdite possono diventare insostenibili per l’Ucraina che ha una popolazione minore, soprattutto se tutte queste vittime avvengono senza risultati probanti sul terreno. Di conseguenza è «altamente improbabile» che la Russia sia colpita così forte da arrendersi o retrocedere. È più probabile invece che siano le popolazioni occidentali (soprattutto europee) a stancarsi dei contraccolpi della guerra in termini socio-economici e a pretendere il suo arresto. Secondo Posen, la guerra in sé non farà guadagnare nulla di decisivo a nessuno dei due contendenti, e ciò «mostra che c’è poco senso nel canalizzare da parte degli occidentali ancora più armi e denaro in una guerra i cui risultati sono più guerra e più distruzioni ogni settimana». Meglio fornire ciò che serve agli ucraini per difendersi ma non offrire risorse aggiuntive per «futili controffensive». Ciò che andrebbe fatto è muovere decisamente verso una soluzione diplomatica del conflitto, che include ovviamente «dolorose concessioni»: secondo Posen l’Ucraina dovrà «rinunciare a parti considerevoli di territorio per iscritto… e la -Russia concedere alcune parti delle sue attuali conquiste, rinunciando a ulteriori rivendicazioni territoriali». Contemporaneamente l’occidente dovrebbe allentare le sanzioni a cui seguirebbero negoziati tra Russia e Nato sulla sicurezza e così via. Fin qui Posen.
Voci critiche
La prima cosa da osservare è che l’articolo appare su Foreign Affairs: all’interno dell’establishment Usa cresce il peso di chi critica la strategia di guerra a oltranza scelta dal Pentagono e assecondata dalla Casa Bianca. Le prossime elezioni di medio termine negli Usa potrebbero cambiare gli equilibri, facendo pendere la bilancia dalla parte di chi preferisce il negoziato, con buona pace di tutti coloro che hanno fin qui sostenuto le ragioni della risposta armata come unica soluzione possibile. Ormai siamo abituati ai repentini rovesciamenti di fronte americani, come è stato fatto in Afghanistan con i Talebani senza preavvisare gli alleati. D’altronde c’è anche chi sostiene che l’uccisione di al zawahiri faccia parte del pacchetto di accordi segreti negoziati a Doha tra l’inviato Usa e la parte “trattativista” del movimento islamo conservatore. Nelle relazioni tra Putin e Washington, quindi, non è ancora detta l’ultima parola. Uno dei problemi, come spiega Lucio Caracciolo, è che oggi gli americani capiscono meno i russi di quanto comprendessero un tempo i sovietici. Una grave forma di incomunicabilità si è stratificata negli anni producendo diffidenza e paura.
Il ruolo europeo
In tale fragilità dovrebbero inserirsi gli europei ma manca loro il coraggio o l’opportunità di un ruolo autonomo, anche se pur sempre solidamente ancorato dalla parte atlantica. L’inerzia delle guerre porta ad una situazione molto pericolosa, in cui il conflitto diviene semi-permanente. È il triste destino delle ostilità nei Balcani, mai del tutto concluse e che ancora oggi, con il caso del Kosovo, mostrano sinistri segnali di risveglio. L’Europa dovrebbe reagire a tale fatalità contribuendo a disegnare una nuova architettura di sicurezza, accettabile per Washington e per Mosca, oltre che per Kiev e gli stati europei più sensibili alle minacce russe (Baltici, Polonia e scandinavi). Più i mesi passano e più la guerra ucraina mostra il suo vero volto, al di là di ogni legittima propaganda: quello di un conflitto cruento e senza sbocchi. Le attese di chi voleva una rapida vittoria sono andate deluse. Resta l’odio che si va accumulando come un carburante per nuove vittime, senza un reale senso strategico. È giunto il momento di riconsiderare l’eventualità di uscire dalla guerra tramite un negoziato, visto che nessuna delle due parti sembra poter raggiungere l’obiettivo che si proponeva (per Mosca distruggere l’Ucraina; per Kiev respingere i russi dietro le loro frontiere). Si tratta certamente di un percorso difficile in cui si rinuncia a molto ma è sempre meglio di una strada caotica senza fine verso l’abisso.
(Mario Giro)
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